“Il giovane senza nome”. Cap. 2
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 2

Il Sole non era ancora sorto a guardare benevolmente il mondo quando Gutierrez, Vereda e Meo si misero in viaggio. Meo non possedeva un cavallo e andava a piedi. Dopo un breve tratto di campagna Gutierrez scese dal suo cavallo e disse al fabbro:
“Amico, abbiamo vegliato tutta la notte, monta un po’ a cavallo e io andrò a piedi”
“Come ?” chiese Meo
“Tu andrai a cavallo per un po’ ed io a piedi, poi ci daremo il cambio.. .è l’unico modo giacché non abbiamo tre cavalli”
“Ma non posso!” esclamò Meo stupefatto.
‘Ma siamo tutti e due stanchi” rispose Gutierrez.
“Ma che cosa vuole il messere? ” pensò Meo “Non si è mai visto che un messere ceda il suo cavallo ad un fabbro !”
Una paura violenta s’impadronì del giovane che corse via a perdifiato, scappando tra i campi dove i contadini raccoglievano verdure per il feudatario.
“Messer Gutierrez, di tutte le vostre stravaganze di cui ho assistito da Toledo a qui spaventare quell’uomo è stata la più strana” disse Vereda.
“Madonna Vereda” rispose Gutierrez “voi chiamate stravaganza un piccolo atto di giustizia? Meo forse non è stanco come lo sono io ?”
“Con voi non si può parlare ! La filosofia che avete studiato a Parigi vi ha reso orgoglioso e nessuno sa rispondere ai vostri enigmi”
Lo spagnolo rise.
“A forza di parlare con tutti state dimenticando, Messere, che mi state conducendo in questo orribile convento contro il mio volere !”
“E che altro potrei fare ?” disse serio Gutierrez “Voi siete una fanciulla per vostra fortuna ma il nostro mondo è comandato dagli uomini” Vereda tacque.
“Non avete voluto sposare Alfonso Brienne ed io ho ubbidito a voi e a vostro fratello ma il convento è l’unica soluzione ” proseguì come se su quella soluzione avesse ragionato a lungo dentro di sé ma ancora dovesse convincersi che fosse davvero l’unica.
“Vi ringrazio di avermi salvata da un matrimonio spregevole ma voi mi chiudete per sempre al mondo…” mormorò la fanciulla.
Gutierrez sentì un dolore allo stomaco e disse con forza: “Chi può dirlo ? Quello che il Creatore vi ha preparato è misterioso e può darsi che voi in quel convento possiate essere più felice che nel mondo !”.
Per un lungo tratto i due restarono silenziosi. Vereda era convinta che fosse l’unica soluzione ma era furibonda all’idea che qualcosa potesse non funzionare in un certo piano segreto che aveva taciuto a Gutierrez. La sola idea di dover restare per tutta la vita nel convento la faceva rabbrividire.
Gutierrez domandò informazioni su dove fosse il convento ad un bambino che raccoglieva verdura e poco dopo apparve all’orizzonte una costruzione grigia, cadente e abbandonata. Vereda rimpianse la sua ricca abitazione a Toledo e Gutierrez fu colto da sgomento. Aveva percepito il dolore di Vereda.
Il convento era deserto, le finestrelle serrate anche se a quell’ora le suore avrebbero dovuto essere sveglie da tempo. Francisco temette che un morbo dei tanti che colpiva ciecamente ogni terra d’Europa avesse ucciso le suore. Scese da cavallo e fece qualche passo:
“Non si sarà sbagliato Matteo L’Alchimista quando mi consigliò questo luogo ?” si chiese.
Durante il tragitto aveva meditato su quale bugia raccontare alla Madre superiore. Quella di essere il padre di Vereda l’aveva raccontata al paese e ci avevano creduto…quello dello zio di Vereda morto crociato in Terrasanta e per cui Vereda voleva andare a pregare a Roma aveva funzionato al confine. . . quella della lebbra l’aveva usata a Napoli.. .ma adesso ? Finalmente Gutierrez, che pensava molto in fretta, ebbe un’idea: Vereda avrebbe finto di essere francese, in un sogno una voce le aveva ordinato di prendere i voti in un misconosciuto convento italiano e lei aveva intravisto nel sogno una costruzione grigia e diroccata ma destinata alla santità.
Gutierrez disse la sua idea a Vereda che rispose:
“Non servirà, abbiamo sbagliato, il convento è disabitato”
“Tento un ultimo tentativo” rispose Gutierrez.
“Quanto è cocciuto questo Gutierrez !” pensò Vereda.
Gutierrez bussò alla pesante porta di legno e ferro, incominciò a chiamare ma nessuno rispose.
“E’ impossibile che Matteo L’Alchimista mi abbia ingannato !” pensò e furibondo per la fame, la stanchezza, il sonno, il desiderio di lavarsi, di indossare un abito pulito e per il fallimento della propria missione proprio quando si stava per concludere perdette la pazienza e con forza prese a calci il portone.
“Andiamo via, Gutierrez ! Questo luogo è foriero di mala sorte” disse Vereda.
“Dio misericordioso abbiate pietà di una fanciulla e del suo servitore !” gridò Gutierrez.
Vereda lo guardò: era pallidissimo, emaciato, confuso. Vereda pensò che in quell’Italia ostile Gutierrez era stato il suo unico sostegno, l’aveva trattata con riguardo e premura, difesa da cavalieri attratti dalla sua bellezza, da truffatori e ladri, da attaccabrighe e violenti e provò compassione per lui. Fu allora che Gutierrez crollò a terra.
“Muore !” urlò a voce altissima Vereda. Subito il portone si aprì e due suore uscirono nel piazzale.
Da qualche parte uscì fuori Lapo che sollevò Gutierrez facilmente tanto era magro e prima che Vereda potesse vedere dove lo portasse una suora paffuta le fece cenno di seguirla dentro il convento. Era la prima volta da quando erano partiti da Toledo che si separavano. Con inquietudine la fanciulla seguì la suora e udì il pesante portone richiudersi dietro di lei.
Seguì silenziosamente la suora per alcuni corridoi spogli e disadorni. La suora paffuta poteva avere la sua stessa età, diciassette anni, senza voltarsi, senza dir nulla la stava portando nella cella più alta, quella in cui nessuna religiosa non poteva mai entrare.
Vereda entrò e vide una suora di circa trent’anni, comprese che era la Madre superiore. Aveva un’aria severa e un abito scuro. La cella era disadorna come tutto il resto, vi era un pagliericcio, un catino con dell’acqua e su una pietra un paio di libri.
“Come vi chiamate ?” domandò la superiora.
“Mi chiamo Amata” rispose Vereda.
Madre Isabella tacque.
“Che cosa desiderate ?”
“Voglio entrare in convento, mio zio è morto in Terrasanta e recentemente mi è apparso in sogno e mi ha detto di recarmi in questo convento”
Madre Isabella che era abituata ad ascoltare la propria anima sentì nella voce di Vereda nostalgia e rimpianto e disse:
“Vi sono sogni falsi ed è singolare che vostro zio vi abbia indicato codesto convento ignoto ed isolato quando in Francia ve ne sono di famosi e venerati”
Vereda non rispose.
“Sono felice che codesta fanciulla non mentisca di nuovo” pensò allora Isabella.
La situazione era ben curiosa ! Una straniera che parlava assai bene l’italiano con un accento straniero che Isabella non sapeva distinguere diceva di aver avuto una vocazione anche se il suo sguardo, il colorito, i gesti colmi di smarrimento e soprattutto la voce dicevano tutt’altra cosa.
La paffuta entrò e Isabella si avvicinò a lei e poi ritornò davanti a Vereda.
“Avete notizie del mio servitore ?” chiese la fanciulla.
“Chi è quell’uomo ?”
“É spagnolo e cristiano”
“Come si chiama ?”
“Francisco Gutierrez”
“E voi come vi chiamate ?”
“Ma ve l’ho già detto !” si spazientì Vereda “Mi chiamo Amata”
Isabella si accigliò per il tono scortese di Vereda.
“Quando potrò rivederlo ?” chiese Vereda.
“Non oggi”
Vereda comprese che ogni altra domanda sarebbe stata vana. La paffuta era rientrata per accompagnarla chissà dove e la superiora aveva assunto l’espressione di chi si congeda.
“Posso chiedervi il vostro nome, Madre ?” chiese con maggior garbo Vereda.
“Sono Madre Isabella”
“Che bel nome !” esclamò Vereda.
Isabella tacque.
Vereda fu condotta in una cella. Su un banco di pietra era posata una veste bianca, un catino d’acqua, una scodella di brodo caldo.
“Come vi chiamate ?” domandò Vereda alla paffuta.
La paffuta non disse nulla e chiuse la porta della cella a chiave.
Vereda provò un’angoscia senza pari. Si affacciò ad una finestrella ma vide solo campagna. Il mattino era grigio, il cielo cupo. Anche Gutierrez nello stesso istante disteso in una stalla senza animali era preda di un’angoscia senza pari. Lapo aveva un forcone e si divertiva a minacciarlo, per quanto secco aveva due occhi feroci sufficienti a far desistere Gutierrez da ogni tentativo di rivolta. Tuttavia con prudenza lo spagnolo fece scivolare la mano al fianco e si accorse che Lapo gli aveva rubato il pugnale. Non aveva mai avuto necessità di usarlo durante il viaggio, aveva solo fatto una rissa a Napoli ma si arrabbiò all’idea che quel contadino ottuso e crudele glielo avesse sottratto mentre era privo di sensi.
“Restituitemi il mio pugnale” disse severamente.
Lapo rise.
“É evidente che costui ubbidisce solo alla sua padrona” pensò Gutierrez.
Alcune ore dopo Vereda fu condotta nuovamente da Isabella.
“Come vi chiamate ?”
“Amata”
“Da dove venite ?”
“Dalla Francia”
“Perché il vostro servitore è spagnolo ?”
“Non ci trovo nulla di strano” rispose Vereda con baldanza e guardò la superiora.
Vi era qualcosa di rigido in lei, certo da molti anni viveva in quel luogo orribile. Aveva grandi occhi verdi, forse era bella ma Vereda non riuscì ad immaginare i suoi capelli.
Isabella provò disagio a quell’esame e comprese che Vereda era orgogliosa e combattiva.
“Figliola” disse “se veramente desiderate lasciare il secolo ed entrare per sempre in questo convento delle Pie Dame io non ho nulla contro la vostra decisione ma voglio conoscere la verità”
Vereda restò incerta, non sapeva se poteva rivelarla oppure no. “Conoscete la nostra Regola ?”
“No”
“Ma allora è stato quell’uomo ad obbligarvi a venire qui !” esclamò Isabella e una grande durezza apparve nei suoi occhi verdi.
“No ! Egli non mi ha costretta, non esiste un uomo al quale ubbidirei !”
“Ma a vostro padre dovete ubbidienza” ribatté Isabella.
“Mio padre è morto”
“A vostra madre allora”
“La Fiorentina è morta dandomi alla luce”
“Fiorentina ?” domandò Isabella con grande interesse.
Vereda si pentì immediatamente di aver detto una cosa vera. Isabella aveva intuito che la fanciulla aveva detto il vero, che non voleva o forse non poteva confessarle tutto e incominciò a dubitare che quello spagnolo fosse il suo servitore.
“Vorreste rivedere il vostro servitore ?”
“Oh si ! Vi prego !”
“Adesso non si può”
Isabella vide come il dolore e il rancore si mescolassero sui lineamenti della ragazza. Il dolore per non poter rivedere lo spagnolo e il rancore verso Isabella per quella risposta. In cuor suo ammirò la fanciulla.
La paffuta entrò come chiamata da un misterioso comando e riaccompagnò Vereda nella cella.
In fretta Isabella raggiunse la stalla.
“Uscite, Lapo !” ordinò al contadino.
Francisco aveva compreso chi fosse e si disse “finalmente !”.
“Sono Madre Isabella” disse lei “Qual è il vostro nome ?”
“Francisco Gutierrez”
“E chi siete ?”
“Il fedele servitore di. . .” Francisco tentennò: lui e Vereda non si erano accordati sul nome ! Che nome aveva detto Vereda alla superiora ?
“State pensando al nome più credibile da inventare per la fanciulla ?” chiese la suora.
“Madre Isabella, voi conoscete il mondo anche se dal vostro quindicesimo anno vi hanno ingiustamente richiusa in questo remoto convento” rispose Gutierrez.
Isabella impallidì, un’ira furente la colse verso lo spagnolo che conosceva la sua vita.
Gutierrez comprese quale lotta si stava svolgendo nel cuore della religiosa e provò simpatia per lei. ‘ “Vi dirò la verità ma solo a voi, Madre Isabella. La fanciulla si chiama Vereda e siamo entrambi spagnoli”
“E perché siete venuti fino a qui ?”
“Io per tenere fede a una promessa che vale più della mia vita”
“Perché più della vita ?”
Francisco tacque ma poi guardò la religiosa e mormorò:
“Vi sono affetti, Madre, che forse non potete comprendere”
Isabella arrossì.
“Ma vi sono anche separazioni che potete comprendere”
“Chi vi ha parlato di me ?” chiese Isabella. Il cuore le batteva forte e a stento riusciva a dissimulare la grande emozione che provava.
“Un alchimista napoletano” rispose Francisco.
Isabella si ritrasse, fece qualche passo indietro, sgomenta.
“Egli vive ancora, Madre, è un uomo saggio e ammirato”
Isabella si volse come per uscire dalla stalla.
“Nessuno conosce ciò che mi ha confessato, neppure Vereda lo sa…”
“E’ un ricatto ?”
“Come potete pensarlo ?!”
Isabella guardò Gutierrez.
“Io vi comprendo” disse Gutierrez con un accento di dolore.
“Tacete !”
“No, non tacerò !” esclamò Gutierrez “Ho viaggiato a lungo, io e Vereda abbiamo corso pericoli ed insidie di cui lei non si è neanche accorta, l’ho protetta e curata come se fosse stata mia figlia, se fossi morto sarebbe rimasta sola in una terra straniera…vi supplico, proteggetela !” disse lo spagnolo e scoppiò a piangere.
Isabella, molto turbata, volse lo sguardo da lui: non aveva mai visto un uomo piangere.
“Io proteggo tutte le Figliole che il Padre Celeste mi manda” rispose sommessamente.
“Lo so, l’alchimista che mi indicò il vostro convento me lo disse, per questo ho condotto Vereda in questo luogo”
“Messere, da chi devo proteggere la fanciulla ?”
“Da Alfonso Brienne, gran comandante dell’esercito cristiano. Vuole sposarla ma Vereda preferirebbe morire anziché acconsentire a questo iniquo matrimonio. Suo padre è il ricchissimo Don Ignacio di Toledo, mercante famoso in tutta l’Europa”
“Ma io come posso. . .?” chiese smarrita Isabella.
“Nessuno la cercherà qui”
“Lo farò invocando il soccorso di Dio” rispose umilmente Isabella.
I due tacquero poi la superiora chiese:
“Come vi sentite ?”
“Meglio”
“La stanchezza e l’agitazione vi causarono questo male. Riposate, state tranquillo. Potrete rimanere finché non abbiate riacquistato le forze”
“Vi ringrazio”
“Prima di andar via potrete salutare la fanciulla”
Gutierrez sorrise.
“Ella ci tiene molto a voi”
Gutierrez si ricordò che per tutto il viaggio Vereda non aveva fatto altro che prenderlo in giro e deriderlo.
“Tornerete a Napoli ?” chiese Isabella.
“Penso di si”
“Se rivedrete l’alchimista ditegli che mantenga la salute”
“Ve lo prometto”
Isabella uscì dalla stalla e ordinò a Lapo di non maltrattare lo spagnolo e alla paffuta, che l’attendeva sulla soglia della stalla, di dargli cibo abbondante.

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