“Il giovane senza nome”. Capitolo 10.

“Il giovane senza nome”. Cap. 10

In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©

A mia madre

Capitolo 10

Un gelo così non si era avventato su Firenze da molti anni e in quell’inverno le feste furono di meno: i ricchi uscivano nella nebbia che saliva dal verdissimo Arno con pellicce e mantelli di lana calda, i poveri con giubbe scolorite e sovente solo con rozze camicie.

Un giovane triste, con i capelli neri ondulati, di modi piacevoli ma tacitumo passeggiava per la vivace città. Era chiaro che i divertimenti che Fiorenza si concedeva spesso come le regate sul ghiaccio, le corse, gli scherzi gaudenti e i finti duelli tra contrade non gli destavano il minimo interesse. A volte si udiva da una finestrella della rinomata ‘ Locanda dei Tre Orsi ‘ il suono struggente di un liuto arabo suonato con arte e perizia: molti si fermavano sotto la finestrella e chiedevano ad altri, già in ascolto, chi fosse il musico. E varie volte al giorno qualcuno raccontava che era un forestiero famoso per la sua inestinguibile melanconia.

“Una Dama gli ha fatto perdere la gioia. Le donne sono la maledizione del mondo” commentava un uomo in berretto e mantello di lana.

“Macché ha perso tutti i suoi denari” diceva un mercante.

“Non capite nulla” ribatteva una donna “La sua fidanzata è morta”.

Miguel aveva dato un falso nome alla locanda dicendo di chiamarsi Miguel Laud. Aveva il terrore di incontrare mercanti amici del padre che avrebbero potuto riconoscerlo perché in città risuonavano molti idiomi stranieri: dal fluente greco al delicato francese, dal ritmico alemanno allo sfumato portoghese, dalle lingue balcaniche al severo dialetto dei paesi del Nord.

Che il giovane fosse molto infelice era vero. A volte, anzi, incominciava a credersi folle: spesso gli sembrava che un’ombra lo seguisse ma poi, voltandosi, vedeva solo un prete magrolino che mangiava biscotti secchi che traeva con meticolosità da un sacchetto di stoffa.

In circa quattro mesi che era lì nessun messaggero era giunto alla locanda a portargli la lettera di Vereda secondo il piano che lei e Miguel avevano tramato a Toledo all’insaputa di Francisco Gutierrez. 

Per lunghe ore Miguel rifletteva. Che cosa poteva essere accaduto ? Forse Francisco Gutierrez lo aveva tradito ? Forse era morto ? Forse era morta Vereda ?

Quasi folle a forza di porsi domande tetre Miguel scivolava giorno dopo giorno in una disperazione senza tregua.

Anche il messaggero a cui Vereda aveva dato la lettera alla fine di agosto, Corrado Antico, viveva male assai quel fine anno. Da mesi giaceva in una cella di due metri, in compagnia di un frate eretico e di uno sfruttatore di prostitute e nessuno gli aveva detto di che cosa fosse accusato.

Corrado era alto, atletico, aveva capelli scuri, occhi grandi e quella melanconia tutta partenopea che nulla aveva a che fare con quella di Miguel o di Messer Giovanni. Era onesto e probo, chiedeva un prezzo giusto per viaggiare per ogni regno e portar messaggi. Aveva intascato da Vereda metà della sua tariffa, il resto avrebbe dovuto darglielo il signor Miguel Laud a Firenze. Quando Corrado era giunto a Roma e si stava rinfrescando in un’osteria dal viaggio alcuni sgherri lo avevano afferrato, derubato e condotto nelle famose e terribili carceri papali. Vanamente il napoletano aveva chiesto il perché. Gli avevano rubato ogni cosa: la lettera sigillata, l’erba medicinale con cui si curava da alcune fitte al cuore, il pugnale, il lasciapassare. Nonostante un rude interrogatorio Corrado non aveva rivelato chi gli avesse dato la lettera da consegnare, né chi fosse il destinatario. Riguardo al suo contenuto non sapeva nulla.

Clemente, il potente vescovo che proteggeva alcuni signorotti tra cui Antoniazzo, aveva il vizio di far derubare da due o tre sgherri, raccattati alla Suburra, alcuni viaggiatori. Voleva costruirsi un palazzo magnifico sull’ Aventino e nonostante fosse molto ricco e gli occorreva molto denaro. Quale sorpresa fu per Clemente scoprire che la lettera sigillata era scritta da Vereda, la figlia rapita di Don Ignacio da Toledo ! Leggendola il vescovo seppe che il clamoroso rapimento era stato voluto da Vereda e che sorpresa fu lo scoprire che l’esecutore era niente di meno che Francisco Gutierrez, poeta, filosofo, il cui passato era ben noto a Roma ! Siccome la fanciulla parlava nella lettera del famoso ponte sull’Arno era assai facile capire che il destinatario fosse un fiorentino o un viaggiatore stabilitosi a Firenze.

Clemente fece fare una ricerca e visto che i fiorentini amano chiacchierare era stato facilissimo scoprire che un giovane spagnolo aspettava ansiosamente una lettera e sapendo che era uomo di garbo, generoso con la borsa e abilissimo Iiutista fu assai evidente che si trattava di Miguel, il fratello diletto di Vereda.

Clemente lo aveva fatto seguire da un prete magrolino.

Aveva già l’idea di vendere la lettera a Don Ignacio ad un prezzo altissimo quando si preparava, la sera del 27 dicembre, ad andare a un ricevimento. 

Sapeva che dal giorno del rapimento della figlia Don Ignacio viveva in uno stato di prostrazione rinchiuso nel suo palazzo di Toledo, la sua voce imponente non si udiva più nei grossi centri mercantili di Spagna e d’Europa, la sua figura corpulenta non s’incontrava più nelle vie di Toledo. Si sapeva che alcuni servitori lo avevano derubato di oggetti pregiatissimi ma Don Ignacio non si curava più di nulla.

“E’ il momento ideale per vendergli la lettera” pensò Clemente raggiante. Si immaginava già il suo palazzo all’Aventino quando parlando con l’ambasciatore inglese quella sera seppe la funesta novella: Don Ignacio era morto a Toledo. Da una settimana si erano svolti solenni funerali. 

Il figlio Miguel era stato cercato a Bologna presso un amico ma era svanito nel nulla e non aveva saputo del decesso del padre.

Clemente si addolorò molto. L’ambasciatore inglese si meravigliò del grande affetto che il vescovo mostrava verso il mercante ma Clemente si doleva invece tra sé e sé della sua perdita economica. 

Per dimenticanza o pigrizia non emanò l’ordine di liberare Corrado Antico che in cella ascoltava malvolentieri le teorie astruse del frate eretico e le bestemmie dello sfruttatore di prostitute e credeva di morire essendo senza erba medicinale per il suo cuore.

Vereda intanto, ignara della morte del padre e dello struggimento di Miguel, trascorreva quei giorni sempre in compagnia di Gutierrez. Durante il viaggio da Toledo a San Leone aveva dileggiato il poeta anche se a lungo andare le era diventato simpatico. Si sentiva protetta da quell’uomo premuroso e pieno di attenzioni. Gutierrez comprendeva la stanchezza di Vereda, la confortava se aveva paura, era entusiasta se lei era lieta e placava la sua nostalgia con scherzi e racconti. Tuttavia durante il viaggio, conclusosi al convento delle Pie Dame, Vereda aveva sempre mantenuto quell’altezzosità che deve avere una Dama verso un cavaliere. Spesso l’aveva offeso perché così voleva la consuetudine.

Nella capanna di Messer Giovanni i due spagnoli divennero amici. Vereda però non gli aveva ancora rivelato il piano parallelo e segreto che lei e Miguel avevano ordito a Toledo, né il fatto che avesse contattato un messaggero a Napoli mentre Francisco era stato impegnato in un’animata conversazione con Matteo L’Alchimista e con la complicità del segretario di questo, Federico. Temeva l’ira di Gutierrez. In fondo egli aveva generosamente accettato subito la richiesta d’aiuto di Miguel, aveva rifiutato il gran compenso a cui avevano pensato i due fratelli, in Italia aveva fatto anche una rissa con un importuno attratto dalla bellezza di Vereda, aveva patito la fame.

Vereda era incuriosita da Messer Giovanni: era bello e schivo e anche se conosceva i modi garbati non era assolutamente interessato alla vita sociale, all’amabile conversare, al corteggiare le fanciulle, in questo caso Vereda, contrariamente a tutti gli altri coetanei, non pronunciava frasi altisonanti, non rideva con lei, non cercava il suo sguardo. Se Messer Giovanni fosse stato un po’ più cortese forse Vereda si sarebbe invaghita di lui. Non era insensibile ai bei lineamenti di Giovanni ma la sua ombrosità la intimoriva, ogni volta che Vereda incominciava un discorso Giovanni pareva aver voglia solo di scappare. Vereda era indispettita da questo fatto. Non le era mai accaduto che un giovane non la corteggiasse e intuiva che Giovanni mai lo avrebbe fatto. Prima di tutto Giovanni ignorava di come i messeri corteggiano le dame, le parole artificiose, i discorsi con sottofondi non troppo innocenti e i sotterfugi gli avrebbero fatto orrore. In più Giovanni non sentiva alcun sentimento d’amore verso Vereda. Sentiva compassione per il suo destino, lodava Dio di averlo fatto giungere al momento giusto quando Meo l’aveva rapita, era felice che vi fosse tanta amicizia tra lei e Gutierrez, era lieto di vederli lieti ma nulla di più.

Il 28 dicembre accadde un fatto che atterrì tutti. I festeggiamenti della Natività non erano finiti a San Leone quando un gruppo di soldatacci di Antoniazzo diede fuoco al convento delle Pie Dame. I soldatacci che stranamente non erano capeggiati dal fido Agnolo ma da un soldataccio sconosciuto a tutti avevano svegliato le suore, in gran fretta le avevano obbligate ad uscire dal convento. Nel gelo notturno avevano incendiato il cadente convento che era facilmente crollato sotto le fiamme.

Isabella, Suor Diletta e le altre avevano dovuto assistere allo scempio. I soldatacci che non indossavano la tunica gialla e scarlatta per non farsi riconoscere non avevano insultato le suore, né le avevano minacciate. 

Isabella aveva ordinato di pregare e tutte si erano inginocchiate. Le loro voci davano fastidio ai soldatacci ma Antoniazzo aveva ordinato di non offenderle.

Molte piangevano. Diletta tremava. Isabella sembrava non avvertire il gelo notturno, mentre il suo povero convento prendeva fuoco era come assente, pareva non vedere i soldatacci che con le torce correvano da una parte all’altra, il fuoco che con sorprendente rapidità agiva, il fumo che saliva al cielo, nè le giungeva l’odore acre. Molte suore e alcuni soldati tossivano. Mentre le rozze voci dei soldatacci si sovrapponevano alle preghiere delle suore Isabella si rivedeva quattordicenne a Siena. Rivedeva il giardino interno e suo padre che discuteva con Matteo L’Alchimista, ventenne napoletano. Isabella indossava quel giorno un bell’abito e si ricordava che aveva i capelli rossi intrecciati in un modo complicato.

Chissà perché mentre il convento ardeva la memoria la riconduceva a quel giorno felicissimo della sua vita ? Insieme ai mattoni andava in pezzi anche la vita monacale di Isabella quasi ci fosse una misteriosa sintonia tra lei e il convento delle Pie Dame.

Antoniazzo si vendicava della religiosa. Siccome Suor Amata non era ritornata Isabella aveva mantenuto la sua promessa o minaccia: si era recata a Roma. Curiosamente il vescovo che l’aveva gentilmente ricevuta era stato molto distratto durante il racconto dei gravissimi fatti. Isabella non sapeva che quel vescovo era Clemente che, avvertito da Agnolo, che come un fulmine per ordine di Antoniazzo aveva raggiunto Roma per informarlo, aveva ignorato la denuncia.

Quella notte dicembrina sembrava davvero l’apocalisse.

“Non temere, Isabella” sussurrò lesta una voce alle orecchie di Isabella .La donna si volse di scatto ma non c’era nessuno dietro di lei.

INDICE:

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

CAPITOLO 9

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