“Il giovane senza nome”. Cap. 7
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 7

Era novembre inoltrato quando Antoniazzo con un gruppo di soldatacci bussò con violenza al portone del convento delle Pie Dame.
Madre Isabella stava pregando e si chiese chi osasse bussare con tanta forza, guardò dalla finestrella e senza essere vista scorse la figura tarchiata di Antoniazzo che quel giorno sfoggiava un abito nero. Isabella provò ribrezzo, sapeva che nessuna suora avrebbe aperto finché lei non lo avesse ordinato ed ebbe la tentazione di non far aprire il pesante portone di legno e ferro ma poi rifletté che non aprire al feudatario sarebbe stato un grande affronto e che avrebbe messo in pericolo tutte le sue Figlie.
“Dio Mio, recami soccorso !” esclamò a voce alta.
Quella visita era inaspettata, da quando un freddo intenso si era abbattuto sulla campagna e su San Leone Isabella aveva sperato che il feudatario non uscisse dal suo castello. La paffuta aspettava timorosa fuori dalla cella della superiora. Isabella apri la porta e disse:
“Suor Diletta, non aver paura, va ad aprire a quell’uomo a cui entrare in questo convento sarebbe proibito”
Il tono era così confortante che Diletta si meravigliò. Isabella aveva compreso che doveva consolare le suore e anche se aveva paura decise di scendere a ricevere Antoniazzo.
La funesta novella che il feudatario fosse alla porta si era diffusa velocemente tra le Pie Dame. Tutte erano inquiete. Solo Vereda, che in quei mesi aveva preso i voti e il nome di Suor Amata, non sentiva nessuna paura, un po’ perché era un temperamento coraggioso, un po’ perché non conosceva Antoniazzo.
“Finalmente, Signora ! Mi stavo domandando dov’era finito il vostro garbo, far attendere un ospite non è da voi” disse Antoniazzo entrando, le sue scarpe infangarono l’entrata di neve sporca.
“Eravamo raccolte in preghiera, Signore” rispose tranquillamente Isabella.
“Temevo che mi avreste lasciato gelare come un cane di cui si getta la carogna” disse Antoniazzo e rise da solo.
Era molto basso, aveva capelli nerissimi e si diceva che fossero artificiali e che un mago francese, durante un viaggio di Antoniazzo in Provenza due anni prima, gli avesse venduto una formula magica per renderli sempre neri ed aumentarne il numero, i suoi occhi guardavano sempre di sbieco la persona che aveva davanti a sè.
“Che lieta novella vi ha condotto a farci visita ?” chiese Isabella dissimulando l’ira crescente verso Antoniazzo.
“Che freddo che fa qui ! Non avete legna ?” disse lui scortesemente.
“La nostra Santa Regola ci vieta ogni agio”
“E’ fatta male”
Isabella udì le risate dei soldatacci che erano rimasti nel piazzale e si divertivano di chissà che cosa.
Far entrare Antoniazzo era ogni volta una gravissima infrazione ma Isabella non poteva opporsi.
“Sono certo, Isabella, che oggi concluderemo un patto” disse il feudatario.
“Io non faccio patti con nessuno, sono una serva umilissima di Nostro Signore Gesù Cristo” Antoniazzo ridacchiò.
“Voi conoscete il mondo, Isabella, avete vissuto tra i peccatori, non vi sono ignote le loro nefande passioni” disse Antoniazzo guardandola di sbieco.
Isabella abbassò gli occhi. Lo avrebbe ucciso: come osava proporle un patto ? Da tempo aveva compreso che Antoniazzo era al corrente del suo amore per Matteo L’Alchimista e il fatto che definisse quell’amore felice ‘nefanda passione’ era un’offesa insopportabile. Isabella pregò tra sè e sè chiedendo a Dio la pazienza di sopportare.
Antoniazzo si aggirava per il convento. Che cosa voleva ?
Isabella aveva ordinato alle sue Figlie di chiudersi nelle loro celle e di pregare.
Vereda invece era disperata al pensiero di non aver ancora avuto notizie di Miguel dopo vari mesi. Da un pezzo Miguel sarebbe dovuto essere arrivato al convento e averla portata via. Avevano progettato
di vivere a Firenze ma come quasi tutti i giovani nel loro piano non avevano messo in conto ostacoli e difficoltà.
Miguel si trovava ancora a Firenze, gli altri clienti della rinomata Locanda dei Tre Orsi lo avevano soprannominato ‘il liutista infelice’ perché la tristezza era dipinta sul suo viso e poche cose sono meste come un’incerta attesa. Ogni giorno Miguel si rimproverava di aver voluto assecondare Vereda nella sua fuga, di averla affidata a quel dissennato di Francisco Gutierrez, di non aver neppure considerato i possibili inconvenienti. Quando lui e Vereda avevano progettato il piano segreto nella bella stanza di Miguel a Toledo si erano sentiti forti, al sicuro, giovani. Ora erano entrambi smarriti e disperati.
Il finto rapimento aveva sconvolto Toledo. In un sol giorno Don Ignacio aveva perso la sua boria. Non s’interessava più dei suoi vasti commerci ma mandava decine di uomini alla ricerca della figlia. Miguel era partito verso Firenze dicendo che si sarebbe recato da un amico musicista a Bologna. Si erano fatte ricerche, interrogatori, indagini accurate ma Vereda sembrava scomparsa nel nulla.
La partenza di Gutierrez, avvenuta negli stessi giorni, non aveva destato alcun sospetto: sovente il poeta lasciava Toledo. Non si sapeva che i due si conoscessero ed infatti si erano incontrati solo il giorno del falso rapimento. Ma grande era la fama di Gutierrez a Toledo e il poeta conosceva bene di vista il figlio del vanaglorioso mercante. Gutierrez non frequentava il palazzo di Don Ignacio che lo detestava per i fatti di Parigi.
“Che altezzoso costui ed è solo un poeta” aveva pensato Vereda vedendo Gutierrez.
“Mi è lievemente antipatica questa fanciulla” aveva invece pensato Gutierrez.
In quei mesi Vereda si era convinta che Corrado Antico, il messaggero migliore di Napoli, l’avesse ingannata e che non avesse mai consegnato la lettera al signor Miguel Laud alla ‘Locanda dei Tre Orsi’ a Firenze. Miguel Laud era il nome falso che i due fratelli avevano concordato. In effetti Corrado Antico non aveva consegnato la lettera ma perché era stato colpito da mala sventura e giaceva nelle carceri pontefice a Roma.
Isabella aveva invece detto a Vereda che Gutierrez si era recato da un amico a Venezia e che l’aveva pregata di salutare la fanciulla. Vereda si era stupita di quella partenza e del modo di agire del poeta. In mezzo a tali pensieri l’arrivo del feudatario era la sua ultima preoccupazione.
“Quante suore avete ?” chiese Antoniazzo.
“Che cosa ?”
“Quante suore avete ?” ripeté Antoniazzo.
“Io non ho suore, ho solo Figlie che proteggo come meglio posso”
“Diciotto o diciannove ?”
“Non so, non sono un contabile!” esclamò Isabella perdendo la pazienza.
Antoniazzo rise.
“Voi siete molto scaltra, Isabella, si vede che il sangue di Tommaso Corriventi scorre nelle vostre vene”
Isabella tacque. Non voleva assolutamente rivelare ad Antoniazzo quante monache vi erano nel convento, nessuno doveva sapere che Vereda era lì.
“Voglio vedere tutte le vostre suore”
“Signore, stanno pregando…”
“Lo voglio”
“La preghiera è un colloquio con Dio” rispose severa Isabella. Lo disse con la fermezza che emerge talvolta dalla disperazione e se avesse potuto vedere gli occhi di Antoniazzo, che si era voltato, la religiosa vi avrebbe scorto un lampo di paura.
“Volete ribellarvi ? Siete troppo soave per subire qualche punizione” disse dopo un po’ Antoniazzo.
Isabella arrossì, chiese al Cielo di darle un po’ di pazienza e poi chiamò la paffuta.
“Suor Diletta, chiama tutte le sorelle e prega loro di raggiungermi qui, nella nostra umile sala del desco”
“Ah, la muta ! La figlia di Lapo” esclamò Antoniazzo vedendo la suora. “Non solo è muta ma anche brutta, ha fatto bene il padre a monacarla !” aggiunse ridendo.
“Suor Diletta è molto devota ed è la suora che mi accudisce”
“Potreste vivere ben meglio, Isabella, che in questo misero convento !” disse Antoniazzo fissandola.
“Vivo benissimo qui, Signore” rispose lei molto freddamente.
Ben presto le diciannove suore erano entrate nella sala, impaurite. Solo una non aveva alcuna paura e guardava beffardamente Antoniazzo.
Antoniazzo le osservò di sbieco come un comandante scruta i suoi soldati.
Isabella guardava Antoniazzo: se avesse osato offendere le suore lo avrebbe schiaffeggiato. La fiera fanciulla senese era riemersa in lei ed Antoniazzo che parve intuirlo disse con voce meno arrogante:
“Sono diciannove”
Suor Diletta tremava ed Isabella le si avvicinò per confortarla.
“Chi è la spagnola ?” domandò il feudatario.
“Nessuna delle mie Figlie è spagnola” rispose Isabella sentendo che il proprio cuore batteva all’impazzata. Ecco che cosa cercava Antoniazzo !
“Voi mentite !” urlò l’uomo.
Vereda fece un passo avanti e disse:
“Sono io la spagnola”
Isabella fremette: non avrebbe dovuto farlo e non avrebbe potuto senza il suo ordine.
Antoniazzo si avvicinò a Vereda e la guardò di sbieco:
“Qual è il vostro nome ?”
“Suor Amata”
Antoniazzo era sconcertato: Suor Amata non aveva nessuna paura di lui.
Meo aveva raccontato ad Agnolo, il capo dei soldatacci, che pochi mesi prima due forestieri erano giunti a San Leone: un mendicante e una bellissima fanciulla spagnola. Aveva raccontato che li aveva accompagnati al convento delle Pie Dame. Agnolo gli aveva portato una cesta di frutta per quella spiata. Antoniazzo era rimasto incuriosito dalla spagnola e voleva vederla.
“Che cosa volete ?” chiese Suor Amata.
“Io sono Antoniazzo, il signore di tutte queste terre, tutto quello che voi vedete mi appartiene. Posseggo ricchezze immense e comando sulla vita e sulla morte di chiunque”
“Ma la vostra vita non vi appartiene e non avete potere sulla vostra morte” rispose prontamente Suor Amata.
Isabella sentì svanire il suo coraggio. Ebbe l’impulso di gettarsi ai piedi del feudatario ed implorare pietà. Chiuse gli occhi per trovare la forza di fare un gesto tanto degradante ma necessario forse per salvare Vereda.
Antoniazzo, invece, era uscito dalla sala e a grandi passi andava verso il portone. Il suono dei suoi passi irati o terrorizzati risuonavano sul pavimento.
Si udì sbattere il portone con violenza e poi un rumore di cavalli lanciati al galoppo.
“Suor Amata!” esclamò Isabella e l’abbracciò.
Alcune suore piangevano, altre si avvicinarono a Vereda, commosse.
“Voi non sapete il pericolo che avete corso” mormorò Isabella con voce fioca.
“Non ho paura di quell’uomo . Quando verrà mio fratello lo ucciderà” rispose Vereda.
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