“Il giovane senza nome”. Capitolo 8.

“Il giovane senza nome”. Cap. 8

In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©

A mia madre

Capitolo 8

Quando Giovanni tornò da una passeggiata trovò Gutierrez raggiante. Sulla tavola dentro la capanna vi erano vassoi d’argento con lepri, capretti, uccelletti, verdure, frutta e vino.

“Il misterioso fantasma è tornato e ci ha donato tutte queste buone cose” disse Francisco. Messer Giovanni prese un vassoio e lo scagliò per terra con una furia che lo spagnolo non gli conosceva.

“Ma che fate ? Qui c’è da sfamare l’esercito cristiano !” esclamò Gutierrez.

“Non voglio la loro carità”

“Allora voi sapete chi ci manda tutte queste cose ?”

“A me basta il pesce che vado a pescare” rispose Giovanni eludendo la domanda di Francisco.

“Ah, Messer Giovanni , voi pensate troppo all’anima !” esclamò ridendo Francisco mentre raccoglieva i cibi da terra.

“E voi al corpo !”

“E ditemi chi sono i donatori ?”

“Una Dama che si è invaghita di me”

“Chi cercate di ingannare, buon amico ? Le Dame non fanno di questi doni” 

“Non tutte le Dame sono simili di temperamento” 

“Saggia osservazione’ constatò Gutierrez.

Giovanni tradì un certo imbarazzo sul viso e Francisco lo guardò con simpatia.

“Quanto candore vi è in questo giovinetto” pensò “a volte si offende e poi si pente, non cede mai al riso o quasi, né alla spensieratezza come dovrebbe, è schivo e ritroso, sobrio nel bere e nel mangiare, pudico, e cosa assai rara ed ammirevole garbato e rispettoso verso le donne”.

Giovanni intanto era risalito a cavallo e dopo aver salutato se ne era andato di nuovo. 

Gutierrez rimpianse il suo cavallo che era rimasto, con quello di Vereda, nella stalla del convento. Pensò anche che una nuova cavalcata avrebbe placato Giovanni che era quel dì d’umor nero. Spesso si assentava a lungo e poi tornava, stanco, mansueto.

A Giovanni piaceva girovagare senza meta per la campagna, era ben accorto a non avvicinarsi al brutto, tozzo e scuro castello di Antoniazzo che su un colle dominava la vallata anche se chi si affacciava da quelle torri non poteva giungere con lo sguardo alle terre papali ma solo intravedere il paese. Anche da quello Giovanni stava ben attento a star lontano perché non voleva farsi conoscere. Più di tutto gli piaceva raggiungere il mare, dopo una bella cavalcata, respirare l’aria fresca, ascoltare la voce delle onde che celiavano in un linguaggio ignoto, smontare da cavallo e trascinando la briglia canticchiare una canzone d’amore che aveva appreso da Maria anni prima. 

La morte di Maria e di Abele lo aveva addolorato e a distanza di anni il dolore era il medesimo.

“Il Tempo non lenisce il dolore” pensava.

Spesso, camminando sulla sabbia finissima, immaginava una fanciulla, come un eroe di gesta ardite pensava di salvarla da un gran pericolo, a volte la disegnava sulla sabbia ma poi distruggeva quei labili segni in cui ben pochi avrebbero riconosciuto una fanciulla.

“Questa Dama non esiste” sentenziava Messer Giovanni guardando la sabbia bagnata dalle onde.

Quel giorno, invece di recarsi al mare, vagò per i campi e senza rendersene conto si avvicinò a San Leone. Era molto freddo, quasi gelido. Vedeva il fiato che gli usciva dalla bocca mentre cantava. I colori si stagliavano con chiarezza e improvvisamente vide apparire un carretto con delle grosse botti di vino. Lo guidava un giovane grasso, piuttosto maldestro a comandare l’asino. Infatti il carretto aveva un’andatura sbilenca. Il giovane prese una frusta e minacciando l’asino lo frustò duramente.

“Vigliacco !” gridò Giovanni raggiungendolo in un lampo “Che male vi ha fatto quest’asino ?” 

“É solo una bestia” balbettò l’uomo terrorizzato.

Giovanni adorava tutti gli animali ma i suoi prediletti erano gli asini.

“Scusate la mia furia ma detesto veder far del male agli animali” disse.

L’uomo restò in silenzio.

“Andate a San Leone ?”

“No…si…” balbettò Meo che era costernato da quell’apparizione: quel giovane messere troppo bello capitava nel momento peggiore.

Giovanni stava per congedarsi dal contadino quando udì un gemito provenire da una grossa botte di vino, si avvicinò per vedere e diede la schiena a Meo che presa la frusta lo colpì.

Giovanni cadde da cavallo e in un attimo il contadino gli fu addosso. Lottarono con violenza. Meo era sleale e colpiva il nemico al viso, Giovanni, che aveva appreso il guerreggiare dal suo maestro Filippo, tentava di difendersi. Alla fine la giovinezza e l’agilità di Giovanni ebbero la meglio e Meo, colpito, perse i sensi. Giovanni stordito, inquieto, sconcertato da quel vile attacco appoggiò l’orecchio al costato di Meo e si avvide che il cuore batteva. Giovanni respirava a fatica ma raggiunse la botte e l’aprì e vide una fanciulla.

“Non abbiate timore, Madonna, vi porterò in salvo” disse con voce spezzata

“Pensate a voi, Messere, che siete ferito” rispose la fanciulla che indossava l’abito delle Pie Dame. 

“Vi porterò in un luogo tranquillo dove sarete protetta e potrete aver fiducia in me” 

“Non ho paura di voi” rispose sprezzantemente la fanciulla che altri non era che Vereda.

“Dopo tornerò qui e soccorrerò questo contadino”

“Si chiama Meo, è un fabbro ed è di San Leone”

“Allora lo riporterò a San Leone con il suo carro”

“Ma siete pazzo ?! Vi ha quasi ucciso e voi volete prodigarvi per lui !” disse la fanciulla.

“Ma è pur sempre un mio fratello”  

“Ma chi siete voi, il Papa, che vi dovete preoccupare di tutti i cristiani ?”  

Giovanni offeso non rispose.

“Slegatemi piuttosto le mani” disse Vereda.

Giovanni tagliò il forte legaccio che serrava i polsi della fanciulla e con dolore vide che avevano fatto dei segni sulla pelle.

“Io vivo in una capanna poco lontana insieme con un uomo buono e giusto. Se desiderate posso condurvi lì”.

“Perché me lo dite di nuovo ? Non mi sembra che io abbia molta scelta o rimango con questo gaglioffo che mi ha rapita o seguo voi” disse Vereda.

Giovanni aiutò gentilmente Vereda a salire sul cavallo e prese la briglia per condurre il cavallo alla capanna. Il cavallo ben conosceva la strada. Durante il tragitto sia Giovanni che Vereda tacquero. Giovanni pensò con stupore che per quanto la fanciulla fosse una suora il suo modo di rispondere era ben lungi da quello che egli immaginava intonato ad una religiosa. Ma uno stupore ancor più grande lo colse quando giunti alla capanna s’avvide che la fanciulla e Gutierrez si conoscevano bene. Commossi si erano abbracciati, piangevano e parlavano fittamente nel loro bel idioma.

Fu facile per Giovanni comprendere che quella suora era la fanciulla di Toledo che non aveva voluto sposare il gran comandante Alfonso Brienne. Imbarazzato ed emozionato Giovanni tornò al galoppo dal rapitore. Meo si era svegliato e giaceva, intontito, dove Giovanni lo aveva lasciato. Giovanni gli medicò le ferite con il sale e Meo lasciò fare guardandolo torvo. Lo fasciò e poi lo aiutò a salire sul carretto. Gli offrì del vino e Meo pensò bevendolo avidamente che neppure Antoniazzo ne aveva di così buono. 

Poi il giovane misterioso si mise alla guida, disse alcune affettuose parole all’asino e moderò il cavallo che si adattò al passo dell’altro animale e si diresse verso San Leone.

Meo era dominato da un odio immenso verso quel giovane che gli aveva portato via Vereda. Non lo aveva mai visto, gli era sconosciuto ma Meo comprese che non poteva essere un soldataccio di Antoniazzo, non indossava la divisa gialla e scarlatta e dai suoi modi garbati comprendeva che era un

messere.

Quando il carretto con i mansueti animali fece il suo ingresso al paese Agnese e Padre Modesto stavano parlando proprio sulla soglia di San Leone. Con somma incredulità videro apparire un angelo che conduceva Meo, malridotto e furibondo.

“Abbiate cura di quest’uomo, vi prego” disse l’angelo con una voce delicata. Poi slegò il cavallo e rapidissimo fuggì via, sollevando polvere.

Meo raccontò che quel brigante lo aveva assalito e derubato.

“Ed allora perché ti avrebbe riportato qui se fosse un malfattore ? ” disse Agnese.

Né Agnese, né Padre Modesto credettero al racconto di Meo e la donna decantò a tutti la bellezza dell’angelo.

Padre Modesto si ritirò nella sua umile casa a pregare. In pochi mesi erano avvenuti due eventi straordinari ! Il buon Dio esaudiva la sua preghiera segreta di veder eventi straordinari con magnanimità.

Era ormai il vespero quando Giovanni, stremato, fece ritorno. Nonostante il freddo e il buio imminente Francisco e Vereda erano nel boschetto, attorno ad un fuocherello, a conversare.

Giovanni si inchinò leggermente per salutarli e mosse qualche passo verso la capanna ma Gutierrez lo chiamò:

“Messer Giovanni !” esclamò allegramente “venite con noi, Vereda desidera scusarsi con voi” “Perdonatemi, Messere, e concedetemi il favore di medicarvi le ferite” disse la fanciulla.

“Vi ringrazio, Signora, non vi è nulla di cui dovete scusarvi e gradirei medicarmi da solo” rispose Giovanni.

“Ella temeva un altro inganno” specificò Gutierrez.

“Siete buono, Messere ” disse Vereda sorridendo ” Io vi trattai con molta villania” 

“Sedete con noi ” disse di nuovo Gutierrez.

“Vi ringrazio ma sono stanco” rispose sommessamente Giovanni.

Giovanni entrò nella capanna, cercò alcune boccette e si vide nello specchio. Era un bellissimo specchio dipinto dal famoso pittore Gualtiero da Vitale. Con malcontento Giovanni vide che aveva una ferita sulla fronte, una sul naso e una sulle labbra. Con attenzione prese a medicarsi. Allora Vereda entrò e restò ad osservarlo. Giovanni era grandemente a disagio perché si sentiva osservato da Vereda, essere osservato era una cosa che detestava.

“Come siete bello! I vostri occhi chiarissimi, il vostro naso perfetto, la vostra bocca, il mento delicato, le vostre mani bellissime…assomigliate in qualcosa al mio dilettissimo fratello ma lui è bruno e voi siete biondo. Non ho mai visto un giovane più bello ed aggraziato di voi !” disse Vereda.

“Assomiglio molto a mia madre, Signora ” rispose freddamente Messer Giovanni”.

INDICE:

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

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