“Il giovane senza nome”. Cap. 11
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 11

Il processo si concluse a Roma.
Ecco i fatti: un gruppo di eretici aveva assalito tra il 28 e il 29 dicembre dell’Anno del Signore 12* * il convento delle Pie Dame. Non si sapeva quali eretici fossero ma probabilmente valdesi sparsi in centro Italia. Antoniazzo, feudatario di quelle terre, non solo era all’oscuro di tutto ma aveva visto le fiamme troppo tardi per portare soccorso alle Pie Dame come avrebbe voluto.
Finito il processo Isabella lasciò i voti nonostante molti ordini la volessero e Clemente le ricordasse i suoi doveri. Con ‘ostinazione’ si disse a Roma Isabella volle tornare nel secolo. Ciò sollevò gran scalpore, si sapeva che era stata una suora devotissima e severa e poi una madre superiora giusta e inflessibile. Le suore preferirono restare nella chiesa e si sparsero in alcuni conventi.
Isabella ebbe il dubbio se far ritorno a Siena. Suo padre, Tommaso, era morto qualche anno prima e sua madre, Cornelia, si era risposata con un banchiere. Isabella scrisse alla madre e ricevette una risposta affettuosa: Cornelia era felice che Isabella tornasse a Siena. Dopo molte incertezze Isabella rispose che aveva scelto di restare a San Leone. Nonostante Antoniazzo avesse potere sul paese era l’unico luogo al mondo in cui si sentiva a suo agio. Cornelia accettò la volontà di Isabella e riconobbe nella sua scelta bizzarra il carattere di un tempo della figlia.
Quindici anni di convento non avevano annullato la fanciulla che discuteva con brio e passione con savi e dotti, né la fanciulla che con tanta sincerità aveva amato l’alchimista.
A 30 anni circa Isabella chiese aiuto a coloro che l’amavano e che lei amava. Dapprima fu ospite di Agnese e la donna fu ben contenta di ospitare Isabella. Poi Meo si offrì di donare la sua umile stanza da fabbro ad Isabella e a trasferirsi da un fratello. Isabella si meravigliò: non sapeva che Meo fosse tanto generoso e non vi era mai stata alcuna amicizia tra loro. Meo aveva sempre temuto la religiosa.
Isabella non poteva sapere i grandi cambiamenti avvenuti nel giovane, quando aveva visto ardere il convento, con tutti i paesani che urlavano e piangevano interpretandolo come segno funestissimo per il nuovo anno, Meo si era sentito colpevole, per la prima volta, del tentato rapimento di Vereda. Era stato lui solo a rapire la spagnola, Antoniazzo non glielo aveva ordinato e quella notte le suore avevano perso tutto per colpa sua.
Piangendo il fabbro confessò tutto ad Isabella: dapprima Isabella non gli volle credere, pensò che Meo, alquanto fantasioso, dicesse bugie ma dalla voce balbuziente e dal tono angosciatissimo del fabbro comprese che la sua confessione era vera.
“Vi siete venduto ad Antoniazzo ?” chiese.
“No. Il signore non sapeva nulla, io da solo ho rapito la fanciulla spagnola mentre stava parlando con un cavallo nella stalla”
“Come mai eravate lì in quel momento?”
“La spiavo da giorni e giorni” confessò Meo.
“Perché ?”
“Perché io l’amo” rispose il fabbro con gli occhi rossi di pianto.
Isabella abbassò gli occhi verdi riflettendo tra sé e sé:
“Tornate in voi, Meo, confessatevi a Padre Modesto” disse infine.
“No. Mi condannerebbe. Finirò all’Inferno!”
“Dove è adesso la fanciulla ?” chiese Isabella.
“Non lo so. Il giorno stesso in cui il Diavolo mi suggerì di rapirla un angelo sulla via del ritorno al paese la salvò”
“Un angelo ?”
“Si ma molto forte” disse Meo ed Isabella vide un lampo di odio negli occhi del fabbro.
“Ma chi è quest’angelo ? Non può essere…” mormorò confusa Isabella.
“Non so chi sia” rispose Meo.
Isabella tacque. Quanta verità e quanta menzogna c’era nel racconto di Meo ?
Che da solo avesse pensato e messo in atto il rapimento era possibile. Meo era robusto e l’amore può condurre in animi stolti a follie. Ma l’angelo chi era ?
“Ditemi com’era fatto quest’angelo” chiese Isabella.
“E’ molto bello, elegante, parla benissimo e nonostante io lo detesti gli devo la vita”
“Non può essere un soldato di Antoniazzo” pensò la donna.
Così finì la confessione di Meo. Egli aveva però taciuto una cosa: a suo tempo aveva minutamente descritto ad Agnolo l’angelo e Agnolo lo aveva cercato dovunque senza trovarlo. Meo era stato ricompensato con ben tre conigli per questa informazione. Sia Meo sia Antoniazzo odiavano l’angelo anche se per diversi motivi. A lungo nel castello si parlò di lui. La fanciulla bionda bellissima desiderava incontrare quell’angelo di cui Antoniazzo e Meo parlavano con sommo dispregio.
Isabella accettò l’offerta di Meo. Si sentì bene in quella casa. Non possedeva nulla se non un vestito scuro. Agnese gliene cucì uno grigio. Isabella pensò che le sarebbe piaciuto un colore chiaro.
Troppo a lungo aveva indossato solo abiti scuri.
Lentamente i capelli, su cui portava sempre un velo, ricrebbero e tutti notarono che erano rossi scuro. Padre Modesto disse che non era il colore adatto ad una religiosa anche se tornata nel secolo ed Isabella sorrise rispondendo che era il colore che Dio le aveva donato.
Il prete le donò una Bibbia ed Isabella per ricompensare Agnese ed altri che le portavano il cibo cuciva per loro ricami con scene bibliche. Nessuno sapeva chi fossero Aronne o Abramo o Dalila in paese a parte Padre Modesto ma i ricami piacquero molto.
Isabella usciva spesso. Le pareva un’immensa libertà poter passeggiare quanto volesse, poter parlare con le donne, abbracciare i bambini, vedere il cielo, non esser costretta a dare ordini, non avere la responsabilità di diciannove fanciulle, non dover ricevere Antoniazzo.
Non sapeva che in paese molti la veneravano e qualcuno la detestava. Ecco l’orgogliosa senese, l’unica figlia dell’illustre Tommaso Corriventi, colui che giaceva in una tomba di marmo che i paesani non avrebbero mai potuto neppure immaginare talmente era riccamente e severamemente adornata, ecco la figlia di Cornelia, gentile ma docile dama, ecco l’innamorata di Matteo L’Alchimista, bruno ed allegro, dottissimo e un po’ folle nell’Arte sua, ecco la suora che aveva osato recarsi al castello e sfidare il signore di tutto ciò che si vedeva a perdita d’occhio da San Leone, ecco la ricca ormai povera, l’istruita che possedeva un solo libro, l’amata che mai più avrebbe amato.
Un sentimento nuovo si faceva largo in Isabella: la serenità.
Spesso Padre Modesto si recava a trovarla, chiedeva consigli per un’omelia, si lamentava di aver pecorelle più pronte a chiedere i debiti ai loro debitori piuttosto che a perdonare.
Meo portava del cibo. Isabella non sapeva che il fratello lo aveva messo a fare il guardiano di maiali per dodici ore al dì in cambio di una misera stanza e un pagliericcio infestato da pulci.
Meo era diventato amico di Isabella e sovente chiedeva che cosa aveva fatto Vereda al convento o che cosa aveva detto. Isabella sorrideva e cercava di ricordare.
Padre Modesto si doleva del fatto che Isabella non fosse nata uomo.
“Con il vostro intelletto, signora, sareste potuta diventare vescovo…o anche di più… ” diceva arrossendo.
Isabella non sapeva che una persona aveva molto sofferto per l’incendio del convento. Gutierrez quando lo aveva venuto a sapere aveva provato un gran dolore allo stomaco pensando a lei.
A Vereda invece non era importato molto.
Giovanni aveva provato un vero e proprio rancore verso Antoniazzo e i suoi scherani.
Il potente Clemente aveva duramente ammonito il feudatario e per fargli vincere il processo si era fatto dare i soldi per costruire il palazzo sul colle Aventino. Antoniazzo, che era molto avaro, aveva dovuto cedere ma al ritorno dal colloquio segretissimo da Roma si era ammalato.
Per ridere e divertirsi Antoniazzo aveva spalancato la sua piccola mano sinistra per far leggere le linee sul palmo ad una veggente a piazza del Pantheon a Roma e lei lo aveva avvisato: “Non tornerà il sole di maggio che sarai morto”.
Antoniazzo aveva riso. Agnolo aveva insultato la donna. Ma quella premonizione ruotava nella mente del feudatario suo malgrado.
“Il sole di maggio…”, con terrore Antoniazzo si vedeva già defunto, con Agnolo inginocchiato e Beatrix, la dama bionda, piangente. Quella frase aveva invaso la sua mente e temeva la fine del verno più che ogni altra cosa.
Agnolo rideva di quella veggente ma Antoniazzo taceva.
La neve ricoprì San Leone, il castello, le terre papali e la spiaggia in cui passeggiava spesso Messer Giovanni. Agnese diceva che era una punizione divina per il rogo del convento ma Isabella amava quella neve. Non temeva malattie e le piaceva uscire nelle viuzze deserte di San Leone.
Un pomeriggio subito dopo il pranzo mentre Isabella e Padre Modesto stavano pregando in chiesa un giovane entrò. I suoi passi pesanti risuonarono sul pavimento di legno. Isabella e Padre Modesto impallidirono riconoscendo Agnolo. Poteva avere vent’anni ma ne dimostrava cinque o sei di più, era alto, bruno e se i suoi lineamenti non fossero stati grossolani e feroci si sarebbe potuto dire quasi bello, indossava la casacca gialla e scarlatta e stava piangendo:
“Sta morendo” disse. Era evidente che si riferiva al feudatario.
“Nel nome del Padre…” mormorò Padre Modesto.
Il prete timoroso pensò che miracolo sarebbe stato salvare l’anima di Antoniazzo prima che precipitasse nell’Inferno.
“Non tardate !” intimò Agnolo.
“Vengo anch’io” disse Isabella.
“Signora, non credo che…” incominciò a dire padre Modesto ma la donna lo interruppe pregandolo di poterlo seguire. Il prete chinò il capo.
Tutto il paese vide uscire nella neve un singolare corteo: Agnolo era in testa, singhiozzava e guidava male il cavallo che sbandava, poi c’era Padre Modesto che tremava un po’ per il gelo ma molto di più per la paura, infine Isabella sul cui volto assorto nessuno sapeva leggere che cosa pensasse talmente si era chiusa in se stessa.
Padre Modesto pensò che Isabella correva un gran pericolo, non riusciva a comprendere che desiderio avesse di rivedere Antoniazzo che le aveva fatto distruggere il convento e aveva fatto montare un processo favorevole solo a lui.
“Le donne sono un’enigna…” sospirò il mite Padre Modesto ma il vento gelido coprì la sua voce.
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