“Il giovane senza nome”. Capitolo 15.

“Il giovane senza nome”. Cap. 15

In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©

A mia madre

Capitolo 15

“Canzonetta novella, Va’ canta nova cosa;

Lèvati da maitino

Davanti a la più bella, Fiore d’ogni amorosa,

Bionda più c’auro fino: “Lo vostro amor, ch’è caro, donatelo al Notaro ch’è nato da Lentino”

“Perché bionda?” chiese Vereda.

“Perché la Dama che il mio amico siculo ama e venera è bionda” rispose allegramente Francisco Gutierrez finendo la canzone che aveva intonato sullo strumento arabo di Giovanni.

“E’ molto bella la poesia” disse Giovanni.

É curioso, Giovanni, che voi laudate una canzone d’amore” notò Gutierrez.

Giovanni arrossì.

Da quando Amore aveva avvinto Vereda e Francisco la lietezza regnava nella capanna e nel boschetto. Sui loro volti era dipinto Amore, nelle loro voci, nei loro agili passi, nei giochi, nel conversare.

Un giorno Giovanni recatosi al mare aveva trovato una famiglia di poveri vagabondi e per diletto di Vereda aveva comprato da loro le carte del Matto, dell’Impiccato, del Sole e della Luna, un gioco che avrebbe divertito assai la fanciulla.

Vereda era stata assai contenta del dono e lei e Gutierrez interrogavano spesso il gioco per leggervi il loro destino. I disegni erano di una bellezza mirabile.

Gutierrez sostenne che li doveva aver fatti un gran pittore, forse all’inizio della sua Arte.

“Scegliete una carta, Giovanni” aveva detto un giorno Vereda.

Giovanni che non credeva al gioco scelse una carta. Vereda la rivoltò e cangiò colore.

Era la Morte. Giovanni sorrise, non credeva a quelle carte. Anche Gutierrez che pure aveva letto Platone, Aristotele, Agostino, Origene e Abelardo si impensierì. Le carte erano veritiere. A lui e Vereda usciva sempre il Sole trionfante.

Giovanni scompariva per molte ore e non sapevano dove andasse. Forse a passeggio, forse al mare. In verità il giovane andava a San Leone. 

Come era dolce quella cavalcata nella quieta campagna, come era dolce lasciare il cavallo in custodia a Meo con cui Giovanni aveva fatto pace, com’era dolce camminare con lieve trepidazione nelle piccole vie che conducevano alla casa di Isabella e bussare, con leggerezza, alla porta. Com’era dolce essere accolto come un amico diletto!

Padre Modesto era affranto che Isabella avesse perso il senno tanto da ricevere quasi ogni giorno un amante. Non era più una religiosa ma la virtù e il decoro…

Padre Modesto non osava più andare a trovare la donna, i paesani si scansavano al suo passaggio e solo Agnese e Meo le portavano cibo e piccoli oggetti ed erano ricambiati con squisiti ricami. Isabella sapeva lo scandalo enorme che la presenza del giovane aveva provocato in paese, sapeva quanto grave fosse l’idea che i paesani avevano di lei ma non se ne preoccupava. Giovanni non era il suo amante ma il suo unico amico e lei ben sapeva che nel loro quieto conversare non vi era alcun male. Giovanni, invece, non si era accorto dello scandalo. Ignaro dei pregiudizi del mondo viveva in una costante serenità, in attesa di quelle ore di dolce conversare, felice del fatto che Isabella esistesse e che egli avesse avuto la ventura di incontrarla quella notte in cui la Morte sembrava voler chiedere l’anima di Antoniazzo.

Il feudatario lottava ancora tra la Morte e la Vita e nessuno aveva più visto, in paese, né Agnolo, né i soldatacci. La vita era assai tranquilla a San Leone, i raccolti più abbondanti, la povertà meno crudele.

Le conversazioni di Isabella e Giovanni toccavano ogni argomento che il momento suggeriva loro: una volta Isabella aveva descritto al giovane Siena e la sua casa e Giovanni aveva immaginato la quattordicenne Isabella, con un abito blu e bianco, i capelli rossi, lieta, ridente, tesa verso l’avvenire. Si era chiesto come mai avesse scoperto in sé la vocazione di diventare monaca ma non aveva domandato nulla. Fu Isabella un altro giorno a rivelargli che il padre, Tommaso Corriventi, aveva ricevuto un giorno la visita di un giovane alchimista napoletano.

“Era il 3 maggio 12* *” precisò Isabella.

Giovanni trasecolò e man mano che Isabella gli descriveva il padre, l’alchimista, la frutta che avevano servito nel giardino interno colmo di fiori, Giovanni scoprì nel viso di lei, nella voce, nei gesti la presenza di Amore. Giovanni abbassò lo sguardo: né il passar del tempo, né i quindici anni vissuti in convento, né le avversità avevano avuto alcun potere su quel sentimento, nulla aveva scalfito il ricordo del giovane bruno ed allegro con cui aveva parlato di cose dotte e che le aveva insegnato a leggere le linee della mano. Giovanni provò un gran dolore perché Amore che Isabella dichiarava non a parole ma con tutta la sua anima gli negava ogni lieve speranza ma al tempo stesso qualcosa di nuovo si faceva largo in lui: adesso comprese come avrebbe potuto confortare Isabella. Innamorato Giovanni si era tormentato a lungo chiedendosi che cosa fare. Spesso avrebbe voluto confidarsi con lei e raccontarle dell’infausta notte nel giardino colmo di aranci in cui la sua felice infanzia era finita. Ogni volta che se lo proponeva perdeva poi il coraggio. Temeva di turbare Isabella. Altre volte fantasticava di confessarle il suo amore ma anche qui la Paura si faceva avanti: temeva che la loro amicizia si sarebbe potuta spezzare.

Spesso Giovanni rimpiangeva di non essere davvero un uomo e anzi un eroe tanto da compiere opere mirabili e piacere ad Isabella.

Avrebbe voluto essere un prode, un valoroso come i paladini di Francia.

“Invece sono una fanciulla e le fanciulle non compiono opere mirabili” pensava scontento. Così gli aveva insegnato Pietruccio. Né Gutierrez, né Vereda, né Isabella sapevano che Giovanni era in realtà Eleonora, unica figlia diletta di Elena, ora monaca in Britannia, e del defunto Papa.

Con rancore Giovanni pensava a quanto il padre avesse mutato il suo destino ma anche al fatto che se non si fosse trovato a vagare in quella notte di neve non avrebbe mai incontrato Isabella…

Tre giorni dopo il racconto di Isabella su Matteo L’Alchimista Giovanni disse distrattamente a Gutierrez e Vereda che doveva partire per poco tempo.

“Dove andate ?” domandò Gutierrez.

“A Salerno da un amico” mentì Giovanni.

“Non sapevo che avevate un amico a Salerno, io conosco un poeta di quella città” disse Gutierrez.

“É un amico d’infanzia” disse Giovanni.

Quando partì Gutierrez si rattristò: era la prima volta che si separava da Giovanni da quando lo aveva incontrato nella campagna piovosa. Ancor di più si rattristò Isabella a cui Giovanni aveva detto che andava a trovare un amico a Ferrara tanto per dire una città lontana da Napoli. 

Vereda fu lieta di quell’inaspettata e fulminea partenza. Le piaceva di più restare senza Giovanni. Da quando così manifestamente egli l’aveva ignorata e si era rifiutato di farle la corte le era diventato antipatico.

In poco tempo Giovanni raggiunse la bella città di Napoli e restò meravigliato dalla sua vasta popolazione e dal mare che splendeva. Non fu difficile trovare la via dove abitava l’alchimista.

Tutti sapevano dove abitava.

Giovanni si trovò in una via piccola e stretta, davanti ad una porta bizzarremente variopinta e di somma bellezza. Ebbe voglia di scappare ma invece bussò con garbo. Un giovane bruno, con i capelli lisci, snello e con un abito nero gli aprì, era Federico, il segretario di Matteo L’Alchimista.

“Matteo L’Alchimista non è in casa” disse e stava per richiudere la porta variopinta quando Giovanni chiese: “Posso aspettarlo ?”

“Fate come volete” rispose il giovane pensando a che voce femminile avesse quel giovane biondo e tremante.

“Mi chiamo Giovanni da Venezia , sono uno studioso e vorrei parlare con…”

“É chiarissimo altrimenti non sareste qua” lo interruppe saccente Federico che lo accompagnò in uno splendido salone affrescato.

“Che splendore !” esclamò Giovanni.

“Sono gli affreschi di Gualtiero da Vitale, amico del mio Maestro”

Dall’espressione di Giovanni comprese che il giovane biondo non sapeva chi fosse il pittore ed aggiunse: “Non conoscete Gualtiero da Vitale? Tutti parlano di lui ed è il prediletto delle Dame”

“Mi dispiace, non lo conosco, sono sempre immerso nei miei studi”

Gli affreschi realizzati con grande maestria rappresentavano le Virtù. Giovanni si accorse subito che la Speranza aveva i capelli rossi come Isabella e se ne adombrò.

“Perché rossi ?” chiese ma il segretario non rispose e preso un gran libro dalla biblioteca glielo porse:

“Leggete, è l’opera di Mohammed, il medico arabo che opera al di là del mare, ne esiste solo questa copia in Italia”

“Non so nulla di medicina, sono un filosofo” mentì Giovanni.

“Non ne dubitavo visto che non sapete nulla di pittura” disse Federico e lo lasciò solo.

Giovanni, quasi offeso, si sedette su un’ampia poltrona. Una clessidra con polvere rossa e blu contava il tempo.

“Come fa la sabbia ad essere rossa e blu ?” si chiese.

Sfogliò il libro del medico e restò incantato dalla scrittura araba che non aveva mai visto e dai disegni di grande bellezza.

Dopo poco tempo un uomo sui trentacinque anni dall’aria energica ed allegra entrò nel salone. Gli strinse le mani e gli diede il benvenuto.

“Non siete veneziano, vero ?”

“No, abito a Venezia” mentì ancora Giovanni.

“L’ho compreso dalla vostra parlata”

“Infatti sono nato a Roma”

“In che cosa posso servirvi ?”

“Vorrei un filtro per guarire il mal di stomaco” disse Giovanni ispirandosi al dolore di Gutierrez.

“Me ne duole” rispose Matteo “ma non conosco questi rimedi. Dovreste chiedere a Gabriel L’Alemanno”

“Chi è Gabriel L’Alemanno ?”

“Il miglior medico d’Europa”

Giovanni osservava Matteo con troppa attenzione. Durante il viaggio aveva sperato che fosse un vecchio decrepito, un po’ stordito, senza capelli e brutto ed invece era un uomo di bell’aspetto, vivace, in ottima salute e vitale.

“Vorrei sposarmi” disse mentendo ancora.

“Buona idea”

“Credete che alla mia futura moglie Napoli potrebbe piacere ? Alla vostra piace ?” 

“Non sono sposato” rispose Matteo.

Giovanni divenne cupo come non mai e pensò che quel rimescolio malsano forse era ciò che si chiama gelosia.

“Dovrei aver fatto conoscenza con la vostra fidanzata per sapere se Napoli le piacerà. Ognuno ha il proprio temperamento” disse Matteo.

“E voi, Signore, come mai non vi siete sposato ?” chiese facendo uno sforzo Giovanni.

“Che importuno codesto Messere !” pensò Matteo ma con garbo rispose:

“Ci sarebbe stata una Dama che sarebbe stato un privilegio sposare ma.. .ormai mi avrà dimenticato”

Una leggerissima melanconia velò lo sguardo limpido di Matteo. Giovanni la vide e si vergognò.

“Che strano ! Mi pare di conversare con una fanciulla!” pensò l’alchimista.

Giovanni si alzò dalla poltrona e si inchinò lievemente.

“Vi ringrazio e perdonatemi per il tempo che vi ho rubato” 

“Cercate Gabriel L’Alemanno, lui vi guarirà dal mal di stomaco” 

“Lo farò” rispose Giovanni sentendosi molto falso.

Federico, il segretario, lo accompagnò alla porta mormorando parole latine.

Giovanni lasciò Napoli molto più triste di quando vi era giunto.

INDICE:

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

CAPITOLO 9

CAPITOLO 10

CAPITOLO 11

CAPITOLO 12

CAPITOLO 13

CAPITOLO 14

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