“Il giovane senza nome”. Cap. 18
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 18

Isabella partecipò al funerale di Padre Modesto. Un giovane prete era giunto da un borgo non lontano per celebrarlo. Ella pianse molto per il prete che per 47 anni era stato pauroso e che quando aveva avuto il coraggio di ribellarsi era morto. La piccola folla dei paesani lo accompagnò alla terra.
Il funerale si svolse poco prima dell’alba e Giovanni attese a lungo sulla soglia del paese. Preferì non parteciparvi perché la sua presenza sarebbe stata uno scandalo e perché Isabella sospettava che Antoniazzo avesse una spia tra i paesani. Agnese fu il messaggero che mentre si celebrava la funzione disse ad Isabella, tra il forte profumo di incenso e le luci delle candele, che l’angelo l’aspettava all’inizio del paese. Isabella non mostrò alcuna emozione perché forse la spia la stava osservando. In verità Lapo guardava altrove, annoiato dalla messa, pensava a quale ricompensa gli avrebbe dato Antoniazzo se avesse catturato l’amante di Isabella.
Era mattina quando Giovanni vide Isabella. Indossava il mantello scuro, aveva un velo sui capelli legati, gli occhi arrossati dal pianto ed affaticati.
“Giovanni, temo di avervi chiesto troppo pretendendo che mi accompagniate a Napoli” disse mestamente la donna.
“Isabella, se voi mi chiedeste la vita io ve la darei” disse Giovanni.
Isabella salì a cavallo e lentamente lasciarono San Leone. Vi era un singolare contrasto tra i campi colmi di fiori, gli alberi verdeggianti nella luce del primo mattino, le tenere foglie e il silenzio dei due viaggiatori. Isabella cavalcava bene, era ritta in sella e si destreggiava con le briglie. Giovanni era sbilenco e curvo dopo il lungo pianto e la veglia.
In quella stessa ora quando Francisco disse a Vereda che doveva assentarsi per tutto il giorno la fanciulla ci restò molto male. Gutierrez avrebbe voluto tacerle il fatto che intendeva andare al castello ma Vereda tanto pianse che infine il suo sposo segreto raccontò tutto.
Vereda si infuriò, aveva conosciuto Antoniazzo al convento, aveva visto la sua tracotanza e il suo sguardo da serpente. Temeva per la vita di Francisco. Disse che era folle rischiare per trovare un medico sconosciuto, che sarebbe potuto essere ripartito da un pezzo o essere stato ucciso da Agnolo. Ancora più folle era tentare di convincerlo ad andare nella lontana Britannia a curare una Dama
Vereda provava anche un po’ di timore a restar sola con Meo.
Il fabbro sembrava vivere in una magia. Con meraviglia aveva rivisto la fanciulla e ritrovato il mendicante che si era trasformato in un nobile signore. Se qualcuno avesse portato Meo sulla Luna egli non si sarebbe più meravigliato. Nonostante i pianti, gli insulti, le discussioni con Vereda Francisco fu irremovibile e si preparò con aria seria e triste ad andare al castello.
“E Giovanni che ti obbliga!” urlò Vereda.
“No, sono io che glielo ho chiesto”
In fretta e furia Gutierrez partì al galoppo indossava un abito scuro.
Bereda si chiuse nella capanna, Meo restò nel boschetto. Dopo un po’ la fanciulla uscì e lo chiamò.
Meo si inchinò.
“Visto che volete essere il mio fedele servitore vi voglio dare un incarico molto importante”
Meo tacque dalla felicità.
“Partite subito per Firenze e consegnate questa lettera al Signor Miguel Laud che alloggia alla ‘Locanda dei tre Orsi’ in quella città”
“Si, Signora”
“Ecco i soldi per il viaggio” disse Vereda dandogli delle monete. Meo non aveva mai visto tanto denaro in vita sua.
“Tornate prestissimo e non indugiate in nessun luogo”
“Ve lo giuro !”
Presa una bisaccia, riposta con cura la lettera e il denaro Meo partì tanto di corsa con il suo nuovo cavallo pezzato che Vereda credette che si sarebbe sfracellato.
Meo non aveva la più pallida idea di dove si trovasse Firenze ma Amore gli impediva di vedere gli ostacoli.
Vereda fu soddisfatta. In quei mesi aveva perduto la cognizione del tempo e pensava che Miguel fosse alla locanda in attesa del messaggero.
Molte piccole guerre erano scoppiate e borghi operosi erano stati distrutti. La lotta tra cristiani e mori proseguiva, alcuni mercanti erano diventati ricchissimi, altri erano caduti in disgrazia, erano nati bambini e molte persone erano morte, amori, vendette, speranze, illusioni, disinganni: Vereda non sapeva nulla. Il suo mondo si era ristretto alla capanna e al boschetto. Voleva bene a Miguel ma spesso lo aveva dimenticato, voleva un po’ di bene ma non troppo a Don Ignacio, suo padre, di cui ignorava la morte. Amava molto Gutierrez, non si rammentava più di Isabella e provava antipatia per Giovanni.
Per ingannare il tempo si mise a decifrare una pergamena musicale. Miguel le aveva insegnato a leggere le note aguzze e canticchiava tra sé e sé quando un rumore la destò. S’avvide che dietro un cespuglio vi era un uomo grasso e ben vestito.
“Chi siete ?” disse con violenza.
“Non abbiate paura, Signora” rispose compitamente l’uomo.
“Non ho paura”
“Devo solo lasciare un baule per Messer Giovanni e andrò via subito” disse l’uomo.
“Chi Siete ?”
“Mi duole ma non posso rispondervi”
“Chi vi manda ?”
“Debbo tacere, Signora”
“Allora siete voi il fantasma che lascia le vivande !” disse Vereda.
Con molta dignità l’uomo grasso inchinò la testa e disse:
“Sono io”
Lasciò un baule e corse via. Poco dopo Vereda udì un cavallo al galoppo.
“Che strano ! Non l’avevo sentito arrivare”
Il fatto era che il messo era prudente e lasciava il cavallo lontano dalla capanna. Aveva un passo silenzioso e si muoveva con cautela. Mentre fuggiva era umiliato. Nessuno l’aveva mai scoperto. Gutierrez gli aveva teso vane trappole, Giovanni, quando era solo, aveva trascorsi notti a tendergli agguati ma era sempre stato più accorto. Era la prima volta che era stato scoperto in quattro o cinque anni che portava viveri ed abiti a Giovanni.
Vereda portò il baule vicino alla capanna, era finemente decorato.Non pensò neppure un attimo a quello che l’uomo aveva detto: “Un baule per Messer Giovanni”. Lo aprì e vide alcuni abiti femminili di grande bellezza, i colori, i tessuti, i ricami erano splendidi. Sotto i vestiti trovò gioielli di squisita fattura e raffinatezza e sotto scarpe femminili riccamente adornate in sintonia con i vestiti. Nel fondo vi era una lettera sigillata.
Vereda, senza nessuna remora, l’aprì: ‘ Nobilissima Dama Eleonora, la vostra reclusione è finita. Quando il Vostro Magnifico Padre volle che voi foste portata, ancora giovinetta, nella capanna e foste provvista di tutto il necessario per il corpo ma soprattutto per lo spirito Egli fece una cosa santissima.
Abbiamo saputo che voi, dilettissima, amatissima e pura Fanciulla, splendore della Cristianità, ospitate due forestieri e abbiamo saputo, con grande dolore, che essi vivono al di fuori delle Leggi Divine e nel peccato
“Ma chi sono costoro che scrivono ?” si chiese furiosa Vereda.
“L’uomo che tanto benignamente e ingenuamente voi ospitate si chiama Francisco Gutierrez, spagnolo, ed è a noi ben noto fin da quando studiava filosofia a Parigi e da dotto quale era volle rovinarsi la vita e la reputazione da sé”
“Francisco non mi ha mai parlato di Parigi” pensò Vereda.
“La donna è Vereda, spagnola, figlia amatissima del saggio mercante Don Ignacio da Toledo che Dio ha chiamato in Cielo”
“Ma che cosa scrivono ? Forse mio padre è morto ?” pensò Vereda quasi in lacrime.
“Questa donna” proseguiva la lettera “giunse al punto di fingere un rapimento per non sottostare alla volontà del padre e vive da concubina con il suddetto Gutierrez rinnegando la virtù, la castità, l’onestà a cui tutte le donne cristiane aspirano”
“Come osano ? Io e Francisco ci sposeremo presto !” pensò Vereda.
“Voi, dilettissima, amatissima, pura Fanciulla che non conoscete il peccato è bene, per la salvezza dell’anima vostra, che voi non viviate più con questi peccatori.
Un nobilissimo, valorosissimo, cristianissimo uomo vorrebbe sposarvi e Noi abbiamo pensato che non può esistere uomo migliore per voi. Il suo nome, celebrato in tutta la Cristianità, è Alfonso Brienne”
Dopo vi era una preghiera e nessuna firma. La calligrafia era molto bella e precisa. La qualità della carta eccellente e l’inchiostro violetto.
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