“Il giovane senza nome”. Cap. 23
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 23

Con molto rimpianto Gabriel L’Alemanno pensò che aveva lasciato il suo cofanetto colmo di medicine rare ed introvabili al castello mentre con grande cura e attenzione pulì la ferita di Giovanni e la fasciò. Con molta preoccupazione aveva constatato che era profonda. Giovanni era disteso sul pagliericcio della capanna e Beatrix aiutava il medico. Giovanni, stordito, ricordava appena l’impresa al castello e invece aveva in mente con gran chiarezza il congedo da Isabella. Gabriel diede alcune indicazioni a Beatrix e uscì per andare a cercare delle erbe che dovevano crescere nel boschetto.
Gutierrez, nel frattempo, aveva già incominciato a costruire due capanne di legno, copiate a quella di Giovanni ma più rozze, assai meno confortevoli ma necessarie per ospitare tutti.
Con gran commozione Gutierrez e Vereda si erano ritrovati. Avevano pianto. Vereda aveva creduto che sia Gutierrez che Giovanni fossero stati uccisi da Antoniazzo. Con grandissimo sollievo ritrovò il suo sposo segreto e con dispiacere si era accorta che Giovanni era ferito. Con curiosità ammirò Beatrix ma sia la sua bellezza, sia il fatto che provenisse dal castello la indispettirono e in pochissimo tempo la curiosità si tramutò in dispregio.
Con gran disinteresse salutò il medico, quel famoso Gabriel L’Alemanno per cui insensatamente Francisco aveva voluto rischiare la vita.
Il medico la salutò con garbo.
Gutierrez lavorava con grande energia. Sembrava che avesse già superato il trauma della prigionia, l’angoscia della morte e dell’incertezza e che molto presto il suo spirito, la mente, il corpo fossero guariti. Come risorto lavorava felice, il suo animo era sereno.
Con Gabriel aveva scambiato tre o quattro parole perché l’antico amico era troppo impegnato a curare Giovanni ma da subito era stato come se non si fossero mai lasciati, come se quei vent’anni non fossero trascorsi colmi di eventi soprattutto per Gutierrez. Entrambi ritrovarono nelle loro anime non l’amore ma l’amicizia di un tempo come se esse fossero in perfetta sintonia. Gabriel aveva vissuto immerso nel lavoro, i suoi capelli a riccioli biondi erano in gran parte ingrigiti ma l’aria schiva e sempre benevola verso il prossimo era la stessa di quando era giovane.
Gutierrez era più invecchiato ma gli occhi vivaci ed illuminati dall’intelletto erano gli stessi di Parigi.
“Ma dov’è andato Meo ?” chiese di colpo Francisco a Vereda. Si era improvvisamente ricordato che il fabbro era diventato il fedelissimo servitore della sua amata sposa segreta.
“Avrei proprio necessità del suo aiuto, è un giovane robusto e forte”
Vereda tacque.
Gutierrez sentì un dolore all’imbocco dello stomaco e lasciò il lavoro, abbracciò teneramente Vereda, la pregò di dirgli che cosa fosse accaduto in sua assenza. Vereda pianse e confessò tutto: il piano segreto che lei e Miguel avevano tramato a Toledo, la lettera che aveva dato al messaggero napoletano, il fatto che Miguel avrebbe dovuto essere a Firenze.
“Ma perché non mi hai detto tutto dall’inizio ?” chiese stupefatto Francisco.
“Temevo la tua ira”
“Diletta Vereda..” disse Gutierrez “Tu e Miguel avevate tutti i diritti di far ciò che volevate. Prego Dio che Meo abbia trovato la strada di Firenze e soprattutto che abbia trovato Miguel”
Così incominciò una lunga attesa nel boschetto: Gabriel aspettava che Giovanni uscisse da ogni pericolo mortale ma non lo rivelò a nessuno, temeva di recar loro dolore. Vereda e Francisco aspettavano Meo e forse Miguel. Nonostante l’evidente disprezzo di Vereda per Beatrix in quei giorni di primavera il piccolo gruppo conobbe momenti lieti, mangiavano all’aperto, Gutierrez suonava qualche canzone sullo strumento arabo di Giovanni, Beatrix era lieta ed imperturbabile al dispregio di Vereda.
Giovanni, che non poteva unirsi alla compagnia, era felice di sentir Gutierrez cantare e di saperli lieti.
Spesso Gutierrez lo andava a trovare, gli raccontava qualcosa, diceva che avrebbe scritto un poema sull’audace impresa di Messer Giovanni che aveva tolto da grande impaccio una fanciulla e due uomini vetusti. Celiava il poeta ma dentro di sé tremava: Giovanni era di un pallore mortale.
Gabriel aveva trovato alcune foglie grandi e larghe che lenivano un po’ il dolore e Beatrix fasciava con gran cura la ferita.
“Vi ringrazio Beatrix di quello che fate per me” disse un giorno, a fatica, Giovanni.
“Messer Giovanni, nessuno mi ha mai trattata con tanto rispetto come voi” disse seria Beatrix.
Giovanni si commosse ma Beatrix non se ne accorse perché la luce era fioca.
“Mio padre,che era un orafo caduto in gran disgrazia, mi vendette ad Antoniazzo”
“Ma come poté…”
“Ne fu assai rattristato ma la fame era grande, mangiavamo radici…” continuò Beatrix chinando il capo “io ero la figlia maggiore…per mia sfortuna piacqui a quell’uomo e mi volle con sé anche se ultimamente sembrava assai cangiato”
“Dove sono i vostri familiari ?”
“Non lo so. Forse ancora in Provenza”
“Oh, Beatrix ! Io ho una ferita al fianco che uno scellerato mi inflisse ma come vorrei guarire le vostre invisibili ferite che sono ben peggiori !”
“Voi siete buono”
Fu allora che si udì Gutierrez che gridava: “Meo è tornato !”.
Meo a cavallo del pezzato, raggiante, entusiasta, correva come un pazzo. Di gran fretta lasciò il cavallo e si inginocchiò a Vereda.
“Ho trovato il signor Miguel Laud !” esclamò balbettando
“Ditemi tutto !”
“Egli è vivo e con grandissima contentezza mi ricevette. E’ stato in un bellissimo spedale dove lo hanno guarito ed ora è ritornato alla ‘Locanda dei Tre Orsi’ dove vi attende. E’ troppo debole per fare il viaggio ma impaziente di rivedervi, Signora Vereda”
Di certo Meo non si aspettava quello che accadde allora: un uomo biondo sui quarant’anni lo colpì e lo gettò sull’erba, con gran forza. Travolto e impaurito, come una foglia d’ottobre al giungere di un forte vento, Meo restò disteso. Vereda e Gutierrez guardarono sconcertati Gabriel L’Alemanno che aveva perso il senno.
“Perdonate, Messere, ma era l’unico tentativo che potevo fare per guarirvi” rispose inchinandosi a Meo il medico.
Giovanni e Beatrix, ignari di quello che accadeva fuori, udirono grida di giubilo, canti, invocazioni al Cielo.
“Posso andare a vedere che cosa accade, Messer Giovanni ?”
“Beatrix voi siete libera di fare qualunque cosa” rispose Giovanni.
In fretta la fanciulla uscì dalla capanna.
Giovanni era in generale molto infelice perché aveva perduto Isabella. Mai più si sarebbe recato a San Leone, mai più avrebbe rischiato da essere assalito da quel folle innamorato di Vereda che era Meo, mai più avrebbe camminato sull’acciottolato delle ripide vie, mai più avrebbe udito il suo cuore battere più forte per l’attesa che Isabella lo accogliesse nell’umile casa del fabbro, mai più avrebbe dolcemente e quietamente conversato con lei.
Spesso si chiedeva che cosa fosse accaduto a Napoli dopo che si era accomiatato da Isabella sulla porta di casa di Matteo L’Alchimista.
Era stato Federico ad aprire la porta variopinta, a farla accomodare nella sala delle Virtù affrescata da quel Gualtiero da Vitale ? Cosa aveva detto Matteo ? E che cosa Isabella ?
“Quel napoletano è il più felice dei mortali…che cosa darei per essere Matteo L’Alchimista invece di essere Giovanni..o Eleonora…” si disse con tristezza.
Quella mestizia agiva oscuramente sulla ferita al fianco sinistro. Gabriel gli faceva cucinare zuppe con cipolla e aglio, molta verdura, grandi quantità di frutta, un po’ di carne bianca ma Giovanni era sempre debolissimo e non si alzava dal pagliericcio.
Gabriel e Beatrix sapevano che Giovanni era una fanciulla ma non avevano trovato nulla di singolare o bizzarro nel fatto che si vestisse come un giovane e che si facesse chiamare Giovanni. Sia Gabriel sia Beatrix non si immischiavano mai nelle vite altrui.
Gabriel aveva rischiato il rogo e come medico aveva conosciuto la morte e il dolore. Non sempre la Morte aveva risparmiato i suoi malati, aveva curato patrizi e plebei, tiranni ed oppressi, malati senza alcuna malattia del corpo e malati assai gravi. Aveva guarito ricevendo grandi compensi e aveva guarito per null’altro compenso che rivedere un altro sano.
Beatrix aveva conosciuto la vera fame, quella che neppure a San Leone conoscevano, aveva desiderato morire nel fiume piuttosto che esser venduta ad un Antoniazzo, aveva dovuto sopportare la sua ira, le sue parole sprezzanti, lo aveva detestato come prepotente amante e ogni giorno il feudatario le aveva rammentato che l’aveva pagata meno di una stoffa pregiata. Avrebbe potuto perdonarlo come egli le aveva chiesto ?
Aveva subito il disprezzo di Agnolo e ora quello di Vereda ma nulla l’aveva resa implacabile come altre fanciulle dalla vita dura, era lieta e felice della libertà, imperturbabile al male, votata spontaneamente al bene. Desiderava che Giovanni guarisse, che Vereda rivedesse l’amatissimo fratello, che Gutierrez scrivesse grandi opere e che Gabriel fosse più allegro di quel che era.
Vereda invece disprezzava anche Giovanni da quando aveva letto la misteriosa ma eloquente lettera ed era certa che vi fosse un amore illecito tra Beatrix e Giovanni. Non immaginava che occupavano le lunghe ore a leggere Virgilio.
Vereda era impaziente di raggiungere Miguel e ogni minuto chiedeva a Francisco di partire per Firenze.
Gutierrez indugiava: gli dispiaceva lasciare Messer Giovanni ancora debole e malato e gli dispiaceva separarsi così presto da Gabriel.
Era tormentato dalla sua sposa segreta e alla fine Vereda ottenne ciò che voleva. Con dolore Gutierrez disse a Giovanni che lui, Vereda e Meo sarebbero partiti l’indomani. Giovanni sapeva che era inevitabile. Meo era tristissimo: aveva gran simpatia per quel medico che lo aveva curato e con un rimedio tanto rapido dal male che lo aveva sempre afflitto. Lo accompagnava a cercare erbe mediche, gli raccontava fatti e storie e lo adorava. Gabriel tentò di insegnare qualche segreto della sua Arte medica a Meo che apprese assai presto. Gabriel scoprì che era intelligente e pensò che se avesse avuto il tempo di istruirlo sarebbe diventato un buon cerusico. Ma era un sogno vano: Meo non avrebbe vissuto neppure un’ora lontano da Vereda.
Il mattino della partenza Gutierrez era di tristo umore e mentre si rasava la barba troppo lunga Vereda gli confessò il suo incontro con l’uomo grasso, il fantasma segreto. Irritato Gutierrez le chiese perché glielo avesse rivelato solo allora ed era ancor più irato che Vereda avesse aperto un baule e letto una lettera destinata a Giovanni. Con passo rapido entrò nella capanna e interruppe Beatrix che leggeva del suicidio di Didone con voce affranta.
“Perdonatemi, Giovanni, Vereda ha compiuto un atto assai sleale verso di voi ed io me ne dolgo”
“Qualunque cosa sia debbo perdonare una fanciulla così bella” disse Giovanni.
Gutierrez cercò il baule e lo trovò nascosto da alcuni panni. Raccontò tutto a Giovanni e a Beatrix che, con il libro ancora aperto, ascoltava con meraviglia.
“Questa è la lettera” disse Gutierrez trovandola tra i vestiti di gran bellezza.
“Vi prego, Gutierrez, leggetela voi” implorò Giovanni.
“Ma probabilmente contiene cose assai private…non vorrei…”
“Non ho segreti per voi”
Beatrix si era alzata ed intendeva congedarsi ma Giovanni le sorrise e disse: “Ve ne prego, Beatrix, non andate. Se lo desiderate restate, non ho segreti anche per voi”
Gutierrez lesse a voce alta la lettera e fremette di rabbia per quello che vi era scritto su di lui e su Vereda. Non sapeva chi fossero gli autori , usavano il plurale, e in che rapporto fossero con Giovanni e trovò più gentile non esprimere ciò che sentiva. Tuttavia la rabbia gli dava una grande pesantezza alla testa.
Giovanni aveva ascoltato sdegnato e in gran silenzio rifletteva.
Beatrix era arrossita infine ruppe quel silenzio e disse: “Siete fortunato, Giovanni, Alfonso Brienne è un grandissimo valoroso e il suo coraggio è quello di sette leoni”
“Ma Beatrix” disse Gutierrez “io lo conobbi a Parigi vent’anni fa: è brutto e antipatico assai”
“Perdonate ma voi sbagliate, Gutierrez, io lo vidi sfilare con i suoi soldati in Provenza, è bello come un giglio e ogni donna vorrebbe essere la sua sposa”
“Voi sposereste Alfonso Brienne ?” chiese incredulo Gutierrez.
“Anche oggi stesso” rispose Beatrix.
“E voi, Giovanni, volete sposare Alfonso Brienne ?”
“Mai”
E fu così che Francisco escogitò una gran truffa e una punizione per quell’uomo che avrebbe voluto sposare Vereda. Siccome pensava in fretta e più rapidamente di molti altri in pochi minuti espose il suo piano: Beatrix sarebbe diventata Messer Giovanni e avrebbe sposato il comandante della cristianità.
Beatrix era entusiasta: si era innamorata subito di Alfonso Brienne quando lo aveva visto passare in Provenza con la sua divisa, la tunica con la croce, i capelli al vento, lo sguardo sperso chissà dove, la folla che lo invocava.
Per trasmutarsi in Messer Giovanni dovette tagliarsi un po’ i lunghi capelli. Era conveniente che glieli tagliasse una donna e lo chiesero a Giovanni che rifiutò. Vereda acconsentì e per cattiveria glieli fece troppo corti. Beatrix passò alcune ore a piangere. Poi indossò un abito di Giovanni.
Quel giorno stesso Gutierrez, Vereda e Meo partirono. I saluti furono lunghi e Gutierrez invitò Gabriel a raggiungerli a Firenze.
“Abbiamo avuto poco tempo per parlare, Gabriel, venite a trovarci quando lascerete questo luogo dove trovammo tanta gentilezza e prima di recarvi in Britannia a guarire la madre di Messer Giovanni”
“Verrò di certo, Gutierrez” disse il medico sorridendo.
Meo si separò con dolore dal suo maestro elvetico.
Giovanni declinò l’invito a Firenze perché sapeva che Vereda non lo avrebbe gradito.
Vereda non volle salutare Beatrix .
Giovanni, inquieto, pensò: “Non vi fu mai fanciulla più scortese di Vereda”.
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