“Il giovane senza nome”. Cap. 30
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 30

Isabella si svegliò inquieta per colpa di un sogno. Aveva visto Messer Giovanni come in una nebbia e poi era svanito nel nulla. Una voce in sogno aveva detto: “colui che ti ama è morto”.
Era la prima volta che Isabella sognava Giovanni e restò molto turbata. Matteo le aveva spiegato che esistono vari sogni, i veri e i falsi, così come vi sono idee vere e idee false, desideri veri e desideri falsi…Tuttavia Isabella sentì un presagio di morte in quel sogno e il ricordo del giovane amico le tornò con gran vivezza alla mente. Mai aveva ripensato a lui o a lei. Da quando era giunta a Napoli la sua vita era stata felice: l’aver ritrovato Matteo L’Alchimista, il sempre amato, il loro matrimonio, la serena vita coniugale, la bella casa affrescata, gli studi solerti del marito, il pessimo umore del segretario Federico, le visite di dotti, eruditi, astrologi e occultisti da molti regni, dalla splendente Sicilia ai gelidi paesi del nord Europa, suscitavano gioia in Isabella.
I quindici anni trascorsi al convento delle Pie Dame erano ormai un ricordo lontanissimo, quasi appartenessero ad un’altra vita. Con gran leggerezza il cuore può alleggerirsi di un pesante passato se vive una vita nuova, ricca di felicità. Così Isabella era anche molto più giovane di aspetto di quand’era monaca: I capelli rossi, il colorito chiaro, gli occhi luminosi, il passo, il parlare, ben pochi avrebbero riconosciuto in lei la donna austera che era stata.
La sua memoria conservava molte persone: tutte le suore che aveva seguito meglio che aveva potuto, il castello di Antoniazzo e il suo sanguinario soldataccio Agnolo, l’apparizione di Giovanni e il suo amore casto, Gabriel L’Alemanno, Padre Modesto, Agnese…erano per lei personaggi di un passato remotissimo. Era come se la vita, interrotta a quindici anni quando suo padre l’aveva obbligata a prendere il velo fosse ripresa quando si era ritrovata con il suo antico amato amante.
Quel sogno le aveva ridestato la memoria di Messer Giovanni che tanto l’aveva aiutata. Di malavoglia Isabella si era ricordata del fanciullo, non che non gli volesse bene o che non gli fosse grata ma anche Giovanni apparteneva ormai ineluttabilmente all’antica Isabella.
Quando Dorotea, la sua dama di compagnia, entrò nella camera e le diede gaiamente il buongiorno Isabella era di cattivo umore. Dorotea era una ragazza grassoccia e di temperamento ilare. Parlava velocemente e spesso nel dialetto napoletano che era in gran parte oscuro ad Isabella. Avvezza a intuire il cuore altrui Isabella si avvide che Dorotea aveva qualcosa da raccontarle e subito le chiese che cosa stava accadendo in casa.
“Suo marito, dilettissima Signora, è uscito assai presto, Federico è d’umore ostile a chiunque osi parlargli ed è assai improbabile che si possa trovare una moglie per un giovane tanto nero d’umore”
Isabella rise.
“Il pittore sta per partire ma vorrebbe salutare la dilettissima Signora”
“Presto, allora, non facciamo attendere Gualtiero da Vitale!” esclamò Isabella.
“Avevo scordato che egli partisse oggi” disse quando fu sulla comoda seggiola e Dorotea le pettinava i capelli.
“Voi neppure lo vedete, dilettissima, ma egli è troppo bello !”
“Dorotea, forse l’Amore ha visitato questa casa?” chiese garbatamente Isabella.
“Mi dispiace assai che egli debba tornare lassù” disse la dama di compagnia.
“Mio marito lo inviterà di nuovo, non temete”
“Ma il pittore non mi guarda neppure”
Isabella sorrise. A dire il vero si era occupata molto poco dell’ospite, il famoso pittore, amico di Matteo anche se un po’ più giovane di lui. Aveva sentito ridere il giovane alto, bruno, dai movimenti lesti ma si era subito scordata di quel riso.
“Quale abito desidera indossare stamattina?”
“Quello rosso”
“E’ molto bello, troppo bello !”
Isabella possedeva molti vestiti colorati. Poco tempo prima li avrebbe considerati poco opportuni ma ora le piacevano i colori dalle tonalità allegre anche se sempre raffinati. Verde, arancione, azzurro, rosso, giallo. E le collane di pietre con cui si adornava e i delicati anelli.
“Stanotte è nato il figlio di Madonna Lavinia” le annunciò Dorotea.
“Sono contenta, raccontami” disse Isabella anche se aveva sentito un po’ di gelosia. Desiderava moltissimo avere un figlio o una figlia ma il Cielo non glielo mandava. Senza cattiveria era gelosa delle donne che partorivano.
“Grazie a Dio è un maschio” rispose Dorotea “Si chiamerà Filippo, come il nonno”
“Allora dopo aver salutato il pittore andremo a trovarli”
Poco dopo Dorotea tornò con del latte e dei soffici dolci con le mandorle per Isabella. Li cucinava Dorotea stessa e quando Isabella li aveva assaggiati per la prima volta si era meravigliata di essersi nutrita per quindici anni con i monotoni ed insipidi pasti delle Pie Dame. La pochezza gastronomica al convento era dipesa anche dalle ladrerie di Agnolo.
Appena ebbe finito la colazione e ben vestita Isabella raggiunse Gualtiero da Vitale che stava sfogliando un libro istoriato.
“Madonna Isabella, la vostra bellezza questa mattina è pari solo alla vostra virtù” disse sorridendo il pittore.
“Gualtiero, voi amate celiare !”
“Tutte le donne si innamorano di me solo di una Dama il cuore non mi appartiene” osò dire Gualtiero.
Isabella rise.
“Voi siete un mistero per me” disse Gualtiero.
“Gualtiero io sono vecchia” rispose Isabella non senza un’ombra di vanità
“Vecchia? Nessuna Dama è meravigliosa come voi…”
“Oh, basta! Avete celiato troppo, tacete !” lo interruppe Isabella.
“Tacerò solo quando il mio cuore me lo ordinerà ed esso mi ordina di parlare”
“Questa l’ho letta in un poema”
“Non mi pare, non leggo mai libri”
Entrambi risero. E fu così che Gualtiero da Vitale lasciò Napoli e si mise in viaggio verso il nord dove era stato chiamato per un lavoro da completare. Dorotea pianse. Isabella tirò un sospiro di sollievo: la corte artificiosa del pittore le era venuta a noia.
Da molte ore, in quel giorno, Judith stava tessendo nel borgo di Santa Maria e mentre le belle mani tessevano con maestria la fanciulla rifletteva. L’odioso lavoro per lei sarebbe durato poco giusto il tempo che Giovanni sarebbe uscito dalla prigione. Judith aveva già pensato dentro di sé di fuggire con Giovanni dal maledetto borgo in cui avevano conosciuto solo la miseria, la tirannide, il carcere e un lavoro iniquo. Doveva esistere per lei e per Giovanni un luogo migliore.
Ma per i bambini tessitori ? Le loro speranze (ma ne avevano ?) non potevano germogliare e fiorire, il domani appariva loro come un lungo estenuante giorno sotto il dominio di Wilfredo, come il cibo scarsissimo e cattivo, le percosse dei genitori o i mali di cui sovente erano afflitti. Con grande compassione Judith guardava i loro volti smunti, inevitabilmente malati. E dentro la fanciulla nasceva un senso nuovo di rivolta, qualcosa che le era sconosciuto. Rainiero, il notaio, l’aveva oppressa con il suo assillante corteggiamento ma lei aveva potuto contare sulla protezione dei genitori e delle amiche e poi sul misterioso giovane incontrato nel chiostro, silente e pieno di neve. Ma i bambini tessitori su chi potevano contare ? Wilfredo era cattivo con loro ed ignorava Judith. Qualcosa lo aveva intimidito e seppure l’allampanato non sapesse che cosa fosse un turbamento dell’anima era proprio questo che sentiva. Per stordire quella cosa incomprensibile beveva ancora di più e spesso dormiva su una panca nella capanna.
La morte mieteva vittime più tra i bambini tessitori che tra i vecchi. Alidora le aveva raccontato che solo due bambini tessitori erano giunti all’età adulta.
Judith si chiese chi erano i genitori dei bambini tessitori, erano invisibili. Poi con mestizia si chiese chi fosse quell’uomo che in fasce l’aveva data ad Enea e alla moglie Sara. Era suo padre ? Era un messo ? Enea le aveva raccontato che aveva uno splendido abito e che doveva essere nobile. Judith non ci credeva. Sua madre adottiva la chiamava ” principessa di Bisanzio” per via di qualcosa di nobile nel suo aspetto ma Judith pensava che sua madre esagerasse. Ogni volta che ripensava al segreto della sua nascita sapeva che era irrisolvibile. Nessuno avrebbe potuto dirle la verità. Nessuno aveva mai più visto l’uomo a Bologna. Nessuno sapeva chi era e donde venisse. Come un fulmine aveva lasciato la bimba e si era dileguato. A volte Judith dubitava del racconto dei genitori, era sempre diverso ma i due non mentivano: la memoria si stava cancellando e segretamente temevano che l’uomo potesse venire a richiedere la bambina del suo principe. Anche per questo il giovane forestiero assai garbato cioè Giovanni era stata una benedizione per loro. Judith era al sicuro o così credevano, rassicurati in un’operosa vecchiaia.
Al ricordo dei genitori Judith pianse. I bambini tessitori restarono impassibili, i singhiozzi di Judith svegliarono Wilfredo che forse non dormiva affatto. Egli si sollevò dalla panca e come intontito guardò nel vuoto.
Tornando Judith si accorse che l’alemanno la seguiva goffamente e in gran fretta corse da Alidora.
“Wilfredo mi ha seguita per la strada ” disse rincasando affannata.
“Che sciagura ! Che Dio ci protegga !” esclamò l’anziana donna.
“Ma non è accaduto nulla” la rassicurò Judith.
“Voi non sapete chi è Wilfredo !”
Due anni prima- le raccontò Alidora – Wilfredo aveva usato violenza ad una fanciulla di Ravenna che si era rifiutata di sposare Fino del Malpasso. Era di nobile famiglia, il padre era il Duca di Quadri, detto “l’Ottuso”, e da allora vi era un odio profondo tra il Duca e Fino del Malpasso e si facevano la guerra. Fino aveva fatto catturare un vagabondo, poco più che quindicenne, che vagava nel bosco in preda ad una febbre oscura e che non c’entrava nulla con l’aggressione. Aveva assicurato che fosse stato lui l’aggressore e per coprire Wilfredo e fingere di fare giustizia aveva fatto impiccare l’innocente.
In paese si mormorava che fosse Angiolo da Corfù, poeta, figlio del grande letterato Giacomo da Corfù, noto in tutta la penisola, amico dell’altrettanto noto Giacomo da Lentini, notaio.
Judith corse in camera sua e pianse a lungo per l’innocente poeta siciliano, per la fanciulla di Ravenna, per i bambini tessitori e per Giovanni. Allora si rivolse al suo sposo come se fosse stato nella stanza e disse:
“Non mi importa chi sei, se sei un uomo o una fanciulla, non mi importa delle due Dame che hai amato, solo te io amo chiunque tu sia, giovane senza nome”.
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