Com’era la vecchia Roma.

Com’era la vecchia Roma. Articolo di Lavinia Capogna.

I rioni Ponte, Parione, Regola, Campitelli ed altri, Campo De Fiori, Piazza Navona, Trastevere sono il cuore di quella Roma che seppure sempre bellissima nei monumenti e negli edifici è stata quasi rovinata dall’arrivo di una media/alta borghesia asettica che l’ha invasa e dove prima non voleva abitare perché troppo popolare e l’ha stravolta con negozi per turisti, costosissimi bar, triste movida (il che potrebbe sembrare un ossimoro ma non lo è) pub e apericena, altro triste neologismo. Ma la Vecchia Roma era tutt’altro negli anni ’70 e primi anni ’80 prima dello sfratto selvaggio di artigiani, residenti, negozietti e librerie.

Era vecchie, grandi, grandissime case, piene di stanze, di storie e di memorie, di scale ed abbaini, terrazzi e terrazzini che si affacciavano su panorami mozzafiato con cupole e tramonti meravigliosi nella dolce aria della primavera romana. Fatiscenti, splendidi palazzi di aristocratici decaduti o quasi, oscuri androni con portieri gallonati, cortili, finestre con panni stesi ad asciugare, ripide scale e mai ascensori, muri anneriti, canzoni che provenivano dalle radio, dignitosi pensionati con vestaglie scozzesi che stavano a chiaccherare su un pianerottolo, donne con le buste di carta della spesa, cucine con sughi di pomodoro che finivano di cuocersi in una casseruola, racconti di guerra, voci, richiami, neonati lasciati ad una vicina, bambini che correvano da ogni parte, coraggiosi comunisti che discutevano accanto ad una stufa.

A volte un violino che si sentiva da una finestra con le persiane aperte.

Le prime vittime di sfratto selvaggio furono gli artigiani, le loro botteghe erano là da tempo immemorabile, con le loro vetrate vecchiotte ed opache: tappezzieri che lavoravano quietamente, il ciabattino con la sua pila di scarpe sfondate signorili e proletarie, i sediari che intrecciavano paglia, i falegnami, pieni di trucioli sui grembiali azzurri scoloriti, che si prendevano una pausa dal lavoro fumando una sigaretta sulla soglia, il fabbro nella sua buia officina con le scintille della fiamma ossidrica che piegava il ferro sull’incudine ardente.

I materassai, il venditore di legna, i laboratori di dolci artigianali.

C’era poi un altro mondo, non laborioso ma sfaccendato, quello principalmente di uomini che passavano il tempo sempre allo stesso bar, chiacchierando del più e del meno, fumando Nazionali, bevendo liquori e caffè, giocando al Totocalcio e tra questi vi erano nullafacenti, mariti annoiati e anche ladri, ricettatori, strozzini, un mondo a parte dove valeva la regola non scritta: tu non mi disturbi ed io non disturbo te. C’erano poi i vicoli malfamati, quelli più malvisti, quelli da cui provenivano gli scippatori sui loro motorini.

Gli antiquari che approfittavano della povertà di gran signori, veri professionisti del discredito: trecento mila lire per un bellissimo mobile di una contessa che non aveva i soldi della bolletta della luce da pagare.

C’erano poi gli artisti, qualche poeta, qualche attore teatrale con una sciarpa colorata, qualche pittore con uno studio pieno di colori. 

Qualche distinto gay dietro a cui mormoravano sornioni i camerieri dei caffè sempre affollati. 

Qualche americano innamorato del cinema nostrano.

I librai con piccoli negozi stipati di preziosi libri e riviste usate, uno Stendhal per duecento Lire.

Le commesse carine delle pasticcerie, luoghi di garbo e di squisitezze frequentati solo da signore o, la domenica, da nonni premurosi.

I fiorai con le mani gonfie per il troppo star nell’acqua, i venditori del mercato, i muratori che cantavano, le suore che passavano veloci, i preti tedeschi con le tuniche rosse.

Le splendide chiese con grandi pavimenti, quadri maestosi, silenziose tombe, ombrosi rifugi di poveri e donne devote, con un fazzoletto annodato in fretta, che pregavono sincere, lontano da sguardi indiscreti.

Giovani ciclisti della domenica, ahimè cacciatori che all’alba sortivano armati, frequentatori di osterie e mogli preoccupate che poi li andavano furtivamente a cercare.

Fricchettoni che tra un teatrino sperimentale e un corso di mimo girovagavano da ogni parte.

Venditori ed acquirenti di oppio e di eroina.

Innamorati all’ombra delle fontane barocche di piazza Navona. Le femministe in un palazzo occupato con i capelli ricci, le collane colorate, le straniere sugli scalini consumati a prendere il sole, i negozi di musica, spartiti, chitarre e mandolini, l’attempata e gentile venditrice di dolci e tè inglesi, liquirizie e cioccolata.

I fuochi accesi nei bracieri d’inverno, le vecchiette ai crocicchi, il negozio di pasta all’uovo con il quadro di Papa Giovanni.

“Hai cento lire ?”, “Dio c’è”, “Se non cambierà lotta dura sarà”.

E su tutto quell’aria indolente ed accogliente tipicamente capitolina.

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