“Il giovane senza nome”. Cap. 26
In esclusiva per GayRoma.it il romanzo di Lavinia Capogna ©
A mia madre
Capitolo 26

Giovanni fu colto dalla febbre. In un’ora si era messo o meglio si era trovato in una situazione curiosissima di cui solo più tardi valutò la portata. A Bologna avrebbe voluto vivere tranquillo e guarire dal dispiacere del non poter più rivedere Isabella, né Beatrix o il caro Gutierrez e invece si era trovato implicato in una vicenda che mai avrebbe potuto immaginare. Avrebbe voluto essere a Firenze per chiedere un consiglio al suo amico Gutierrez ma era lontano e non aveva nessuno con cui confidarsi. Enea, il giorno seguente, gli portò in dono tre abiti. Due per l’inverno e uno, molto bello, per le nozze. Nonostante Giovanni avesse messo mano alla bisaccia dove aveva un po’ di denaro Enea lo rifiutò.
“Come mi appare diverso oggi il viso del sarto!’ esclamò dentro di sé Giovanni “Come è felice il suo sguardo, come pare un miraggio il lacrimare che tanta compassione mi destò ieri nella sua bottega e l’andatura non è più curva e affranta…che cosa è mai accaduto da aver tanto cangiato quest’uomo oppresso ?”
Enea, che in effetti era il ritratto dell’uomo felice, baciò sulle guance il giovane, lo chiamò figlio.
Poi entrò l’ostessa e chiacchierando raccontò che Judith aveva pianto come deve fare una fanciulla .
Giovanni si sentì turbato: Judith piangeva. Decise che appena sarebbe stato possibile le avrebbe rivelato la verità ed era impaziente di incontrarla ma al tempo stesso ne aveva un singolare timore.
Forse le sarebbe potuto sembrare brutto o antipatico.
La febbre gli salì molto ma l’ostessa chiamò un medico assai loquace che lo prese in giro. I pensieri , i sogni, tutto era più rapido dell’usuale e Giovanni fece, il sabato, una gran fatica per alzarsi, si lavò, indossò uno degli abiti che gli aveva donato Enea, ne ammirò la bella fattura e lo indossò. Era di color rosa scuro, con strisce verdi. Si accorse che tutte le cose semplici gli erano difficili: camminare, parlare, ascoltare. L’ostessa gridò di giubilo vedendolo con un nuovo abito elegante e Giovanni , sempre più incerto nell’andatura e con il cuore in tumulto, si avviò verso il convento dei domenicani.
“Sopporta, cuore !” si disse citando Omero.
Un frate ben presto lo accostò e poi gli disse lestamente di seguirlo. Giovanni e il frate si persero in un labirinto di viuzze e infine giunsero ad una porta segreta che dava su un chiostro.
“Come è bello !” esclamò Giovanni. Ogni turbamento era svanito. Una incomprensibile lietezza lo aveva afferrato. Il frate gli disse di aver pazienza ed egli attese. Non avrebbe potuto dire per quanto. Riandava con la memoria agli eventi straordinari dei suoi pochi anni e questo gli pareva il più singolare.
Il silenzio era assoluto. La pace era completa. Che cos’era mai questa pace ?
Giovanni aspettava senza alcuna fretta. Il chiostro era bellissimo e semplice. La neve incominciò a scendere e Giovanni la raccolse ebbro di gioia e ne tenne un po’ in mano finché non svanì, tramutandosi in acqua. Allora vide una fanciulla, non si era accorto che fosse entrata nel chiostro. Ella non guardava verso Giovanni ed egli attese ancora. Poi mestamente si avvicinò a Judith.
Ella indossava un mantello chiaro e il viso e le mani erano arrossate dal freddo o forse dall’imbarazzo, era in silenzio, quasi smarrita.
La neve scendeva adesso molto di più e ben presto ammantò il chiostro. Giovanni sapeva che secondo le norme della cortesia avrebbe dovuto parlare per primo ma solo se Judith gli avesse rivolto benignamente uno sguardo o un sorriso. Judith sembrava immersa in un celato dolore. Giovanni lo percepì. Sapeva che aveva accettato quel matrimonio solo per sfuggire al notaio che l’assillava. Sapeva di essere solo un forestiero. Sapeva che la sua apparenza di studente era solo un’apparenza. Judith, infine, lo guardò. Il suo sguardo era limpido ed innocente. Giovanni stava per dir qualcosa ma poi non proferì parola: tutte le parole gli parvero improvvisamente inutili.
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